Il femminicidio di Giulia Cecchettin ha riportato alla luce il bisogno nella società italiana di un nuovo orientamento sociale nella percezione pubblica di questioni come patriarcato e le effettive libertà della figura femminile sul nostro territorio. Ma dove l’attivismo sulle piattaforme di social media riceve spesso la critica della performance sterile e fine solo a sé stessa, le manifestazioni di questa settimana sono un lampante esempio di come il mondo digitale possa permettere alle masse e agli inascoltati di organizzarsi, e assieme tentare di cambiare il mondo.
Ideologia, mobilitazione e battaglie sociali nell’era digitale – Bologna, 22 Novembre. Il corteo, iniziato alle 19 in piazza 8 Agosto conta migliaia di individui. Le stime variano da seimila a circa dodicimila persone, radunate a manifestare in nome di Giulia Ceccchettin contro le radici di un sistema patriarcale che conduce, inevitabilmente, a una cultura dove è possibile rappresentare i femminicidi come “atti di amore”.
La manifestazione di Bologna è solo una delle numerose che stanno attraversando il territorio italiano, da Pescara a Milano, per culminare nel corteo nazionale contro la violenza maschile sulle donne e di genere a Roma sabato 25. Una mobilitazione di massa, che vedrà centinaia di migliaia di persone in tutta Italia manifestare per un futuro dove, diversamente dai trend attuali, il numero di femminicidi decresca assieme a quello degli omicidi sul nostro suolo, invece che rimanere invariato.
In questo, l’ambiente digitale è ormai divenuto parte fondamentale della mobilitazione, capace non solo di connettere un vastissimo pubblico, ma di renderlo attento ai cambiamenti nel mondo e, forse, mettere in discussione quegli aspetti che la nostra società già in ritardo a cambiare.
Una breve storia delle battaglie sociali nell’era digitale
I cambiamenti sociali, nel passato, richiedevano tempo. Molto tempo. Fra i quasi cent’anni passati dalla formazione dello Stato Italiano al suffragio universale e l’ancora difficile battaglia per i diritti della comunità LGBTQ+, non si ritiene necessario fare esempi. Eppure, nel bene e nel male, la società occidentale contemporanea pare seguire quel trend che in ambito informatico si definisce Legge di Moore: la tecnologia abbrevia i tempi, aprendo nuove strade per comunicare e, potenzialmente, organizzarsi contro le ingiustizie di un sistema che a volte appare incrollabile.
I primi esempi di attivisimo digitale furono, proporzionalmente a quanto stiamo assistendo ora, piccoli, ma capaci già di smuovere un sistema impreparato alla mobilitazione e un sistema di diffusione delle informazioni capillare come quello della rete: fu il caso di Lotus, un’azienda statunitense che nel 1990 tentò di mettere in vendita un insieme di CD-ROM contenenti i dati personali di oltre 120 milioni di persone, trovando una strenua resistenza da parte di oltre 30.000 persone che, riunite attraverso un ancora primordiale internet, tutto newsletter e e-bulletin, contattarono direttamente l’azienda per richiedere la rimozione del proprio nome, spingendola ad interrompere i propri piani di vendita l’anno successivo.
L’avvento del Web 2.0 e dunque di tutti quei processi di interconnessione fra siti e social media cambia ulteriormente il campo di gioco. Si è detto precedentemente, uno dei principali punti di forza della rete è la viralità del contenuto: una foto, un testo, un video di particolare impatto è capace di circolare in questione di minuti per tutto il mondo, rendendosi impervio a ogni possibilità di censura: così fu, per chi se lo ricorda, il fenomeno di Kony 2012, una campagna mediatica organizzata dall’allora sconosciuta associazione Invisible Children, e diffusasi come fuoco per i social media (specialmente Facebook) per sensibilizzare la popolazione all’utilizzo di bambini soldato da parte del generale Joseph Kony in Uganda. Il caso di Kony 2012 risulta particolarmente interessante per via dell’eccellente lavoro ad esso sottostante, un elemento che continuerà nel tempo.
L’HashtagActivism, #MeToo, Fridays for Future e Black Lives Matter fra i primi esempi delle grandi battaglie sociali nell’era digitale
Come si era detto in un precedente articolo, la viralità del contenuto è uno dei pilastri fondamentali della società digitale. Un post, un video, un’immagine infinitamente riprodotti e condivisi sono infatti altamente resistenti ad ottiche di censura e riappropriazione mediatica: l’oggetto digitale, una volta divenuto virale, smette di avere appartenenza e diventa invece parte integrante della comunità, dello zeitgeist contemporaneo.
Così fu per #MeToo, il movimento contro la violenza sulle donne esploso nel 2017 in seguito all’uscita di numerose dichiarazioni di abuso sessuale da parte di attrici e persone del mondo dello spettacolo all’interno di Hollywood. Il report del New York Times su come il produttore Harvey Weinstein avesse pagato otto donne per tacere sull’averle sessualmente assalite vide una vera e propria rottura della diga che manteneva il silenzio di un sistema dove maschilismo e cultura dello stupro erano non solo consolidati, ma normalizzati. Dalle iniziali otto persone, la diffusione dell’hashtag #metoo sui social media e il discorso creatisi intorno permise a molte persone rimaste sino ad allora mute di non aver paura ad esprimere le proprie esperienze, coinvolgendo numerose persone in un movimento che dal mondo del cinema e dello spettacolo si diffuse a macchia d’olio, esondando prima sugli Stati Uniti, e poi in tutto il mondo. La forza di #MeToo continua ancora oggi, all’interno di sistemi di potere restii a qualunque forma di cambiamento.
Per citare un caso particolarmente significativo degli effetti di #MeToo, nel 2021 il titano dell’intrattenimento Activision-Blizzard vide una costellazione di accuse culminanti in una causa legale indetta dallo stato della California, dopo il suicidio di una dipendente causato dalla propagazione interna all’azienda di un video pornografico ripreso senza il suo consenso, rivelando una cultura di misoginia comprendente molestie, offuscamento da parte degli uffici di HR delle accuse di stupro nei confronti degli esecutivi, e la pratica del cubicle crawling, dove l’azione da parte dei dipendenti maschi di girovagare per l’ufficio in seguito a una serata di intossicazione per molestare le colleghe era non solo normale, ma propagata dall’alto.
Similmente, #BLM fu un punto radicale di snodo per le questioni intrinseche di razzismo sistemico in occidente. Il movimento Black Lives Matter, nato nel 2012 per richiedere giustizia nell’omicidio da parte delle forze dell’ordine del diciassettenne afroamericano Travyon Martin, divenne icona dell’antirazzismo su scala globale in seguito all’omicidio pubblico di George Floyd, scatenando una discussione tuttora non conclusa, su azioni da parte della polizia in occidente, dove l’applicazione di metodologie aggressive nei confronti di persone di etnia non bianca (il cosiddetto racial profiling) era reputato una normale parte del lavoro del corpo di polizia. La propagazione del movimento nell’ecosistema digitale ha fatto sì che #BlackLivesMatter abbracciasse l’intero blocco occidentale, adattandosi alle variegati questioni di razzismo sistemico incancrenite all’interno della cultura bianca.
Al centro della rivoluzione digitale dell’attivismo sono figure giovani ed avvezze all’uso dei social media – i nativi digitali, per cui l’impiego di dispositivi capaci di accedere alla rete ha assunto una funzione semi-prostetica – la cui elevata alfabetizzazione digitale permette di amplificare questioni sociali e riproporle su scala globale. Le azioni di Greta Thunberg e le alte capacità comunicative di una persona appartenente alla generazione contemporanea hanno favorito la nascita di #fridaysforfuture, un’inziativa di manifestazioni giovanile in nome di una sensibilizzazione per i governi alla salvaguardia del pianeta.
Viralità e rappresentazione mediatica delle battaglie sociali nell’era digitale. La scintilla che scatena la fiamma è sempre una fra mille
Un dato interessante dei movimenti prima citati, come delle manifestazioni che stanno avendo luogo ora è l’iconicità del contenuto virale che funge da goccia capace di far traboccare il vaso: L’omicidio di George Floyd, le accuse delle donne abusate da Weinstein, e le affermazioni della sorella di Giulia Cecchettin sono sempre rappresentative di questioni vaste , purtroppo, infinitamente già viste e note. Perché loro allora?
Le risposte, come sono solito dire, sono stratificate, ma alla loro base esiste un’importante questione di rappresentazione nei media tradizionali (quello televisivo specialmente), non solo indirizzati a un pubblico diverso per fascia di età e abitudini di consumo a quello dell’ambiente digitale, ma anche considerati più rappresentativi di un orientamento istituzionale su tematiche di tipo sociale. Per queste ragioni, si tende a considerare determinate emittenti come politicamente orientate (possiamo dire Studio Aperto e TgLa7 incarnino due fasce opposte dello spettro sociopolitico, una tale considerazione diventa più difficile – anche se non impossibile – se ci riferiamo ad esempio, al Post). In nome di una linea editoriale a volte radicalmente opposta all’elaborazione di tematiche di rivoluzione femminile nel panorama culturale italiano.
L’apparire allora di tematiche affrontate o raramente o molto malamente all’interno dei canali di consumo tradizionalmente intese permette di scardinare parzialmente la concezione che determinate istituzioni appaiano granitiche e immodificabili nel loro oscuramento di tematiche importanti per le nuove generazioni. Le parole di Elena Cecchettin sono infatti state capaci di enfatizzare questioni fino a pochi anni fa aliene al mondo della televisione, quali il bisogno di una riconsiderazione da parte del genere maschile sul suolo italiano del ruolo che ciascuno di noi (e con noi si include l’autore) ha all’interno del sistema, dove una partecipazione a dinamiche di violenza non è più accettabile. In questo, è stata forse la Call to Action della sorella di Giulia a dare forza a un bisogno di uscire dagli schemi di un’osservazione passiva di rapporti sistemici di ingiustizia. Bruciare tutto, scendere in piazza, organizzarsi.
Globalizzazione delle battaglie sociali nell’era digitale
La facilità di accesso a internet ha caratterizzato, fra le altre cose, la possibilità di creare blocchi di identità digitale ed ideologica che attraversino i confini nazionali, toccando aspetti che, sebbene sempre presentanti varianti tipicamente locali, presentano l’opportunità di creare movimenti su scala globale.
NiUnaMenos, movimento contro la violenza sulle donne nato nel 2015 in Argentina, il cui nome fu ispirato alle parole della poetessa Susana Chavèz Ni una mujer menos, ni una muerta más, morta nel 2011 a causa dell’aggressione di tre uomini, si è esteso come attivismo di mobilitazione su scala mondiale, portando fra le altre cose alla fondazione di Non Una di Meno nel 2016 in Italia.
Il salto dei confini nazionali ha permesso, almeno per quanto riguarda il blocco occidentale, di enfatizzare elementi di violenza appartenente al retaggio culturale che accomunano persone separate e distanti per quanto concerne aspetti di identità culturale, e che avrebbero altrimenti impiegato anni a trasmettersi di stato in stato.
Un simile effetto hanno avuto le prospettive sindacali e di lavoro presenti in Unione Europea verso i lavoratori statunitensi, dove le Union fra lavoratori sono ritualmente distrutte a livello aziendale grazie alle pratiche di Union Busting. L’associazione digitale dei lavoratori statunitensi si accorpò nel forum di reddit r/antiwork, dove i lavoratori potevano finalmente confrontarsi su argomenti quali paghe lavorative, minimi sindacali, ore, e richieste di lavoro extra da parte dei propri capi. Il movimento ebbe tanto effetto da richiedere da parte di Fox News, media repubblicano per eccellenza, un fine lavoro di gogna mediatica per screditare il movimento e metterlo a tacere.
La lama dell’attivismo performativo taglia anche dal lato corretto
Si era discusso precedentemente del ruolo di “influencer attivisti” nella promozione ideologica di battaglie sociali nell’era digitale, osservando come esse presentino rischi intrinsechi a livello di diffusione di messaggi semplificati per motivazioni di digestione da parte del pubblico e di un bisogno di presa di posizione. I gesti definiti come di attivismo performativo, cioè manifestazione di appartenenza a gruppi ideologici al fine di, essenzialmente, gettare acqua al proprio mulino, esistono.
Eppure, la capillarità che, a volte, i social media permettono di avere, ha effetti importanti, raggiungendo ed enfatizzando argomenti che si spera col tempo possano diventare la nuova norma. E in ciò, gli slogan assumono un ruolo importante: per fare una digressione esmplificativa, nei tempi della mia gioventù bazzicante per centri sociali milanesi, uno degli slogan più cantati in manifestazione era “Se non cambierà, bloccheremo la città”. Un’affermazione che, per quanto riottosa ed empowering, in sé non vuol dire nulla. Ma la diffusione digitale di ideologie e della competenza alla scrittura permettono anche allo sloganismo di assumere stratificazioni di significato capaci di colpire e far riflettere. La condensazione di un messaggio in pochissime parole può avere la funzione di accendere gli animi, di condurre a riflessioni profonde. Così, “stupratore non malato, ma figlio sano del patriarcato” o “tutti gli uomini” sono polarizzanti motti che obbligano chi li legge ed ascolta a condurre ragionamenti che possono risultare, ai diretti interessati, scomodi ma necessari.
Si programma di parlarne con maggiore dettaglio in un successivo articolo, ma la diffusione di slogan di questo tipo ha infatti caratterizzato una nuova emersione di commenti solitamente incarnati nell’ombrello di “not all men”, ossia di reazioni oppositive da parte di quei membri del sesso maschile che reputano di essere ingiustamente accorpati nell’insieme degli stupratori e dei violenti. Dove, forse, la comprensione del fenomeno può non essere stata assimilata, è evidente che allora il messaggio sia uscito fuori dall’ echo chamber ideologica, arrivando anche a chi avrebbe dovuto riceverlo sin dall’inizio.
Un’ultima considerazione: Desidero, in quanto autore, non si pensi che poiché ho affrontato questi elementi, mi consideri ad essi estraneo. Come tanti uomini, derivo da un retaggio culturale dove ho preso parte, sia passiva che attiva, a gesti di maschilismo nei confronti delle donne. L’essere consci o meno del fatto nel mentre non ritengo cambi le cose. Se il messaggio è arrivato anche a me, con troppo ritardo, penso possa arrivare a tutti. E in questo, forse, la propaganda digitale funziona.