Nel mondo del lavoro, una straordinaria distorsione ci porta a riconsiderare il concetto di giustizia salariale. Spesso, ciò che appare evidente agli occhi di molti è il rovesciamento delle logiche tradizionali: mestieri di fondamentale importanza per la comunità si trovano costantemente relegati a margini salariali esigui, mentre altre professioni, all’interno di settori noti per i danni sociali ed ambientali che generano, godono di retribuzioni stratosferiche.
Nel mondo contemporaneo, assistiamo a una straordinaria distorsione dell’equilibrio tradizionale: professioni vitali per il benessere della comunità, come insegnanti e operatori dedicati agli anziani, spesso vedono i loro stipendi drasticamente sottostimati. Al contrario, occupazioni all’interno di settori noti per il loro impatto negativo sul benessere sociale e ambientale, quali combustibili fossili o tabacco, godono di retribuzioni esagerate. Questa inversione di valori nel mondo del lavoro sfida ogni logica. È giunto il momento di riconsiderare questa prospettiva distorta: la giustizia salariale dovrebbe essere il riflesso diretto del contributo alla società, non dei profitti generati.
Inoltre, diventa cruciale introdurre una retribuzione minima universale in tutti i paesi, compresa l’Italia, per affrontare la piaga del “lavoro povero”. La contrattazione collettiva a livello sindacale continua a essere rilevante, ma solo se basata su un piano salariale comune, sufficientemente elevato da sradicare la povertà e l’emarginazione sociale.
Se si sostiene che il lavoro dovrebbe innalzare la dignità dell’individuo, è scandaloso constatare che almeno uno su cinque sul pianeta svolge un lavoro che non lo protegge dalla miseria. Ancora più allarmante è l’osservazione che gli aumenti di produttività raramente si traducono in un miglioramento dei salari per i lavoratori, soprattutto a causa della diffusione crescente di tipi di lavoro non convenzionali e dell’indebolimento delle organizzazioni sindacali. Il fenomeno del “lavoro povero” sta guadagnando terreno, e il suo impatto è tutto fuorché marginale. Attualmente, ben 712 milioni di individui nel mondo si trovano in situazioni di lavoro che non garantiscono loro una vita dignitosa. Inoltre, il 44% dei lavoratori nei paesi a basso reddito e il 52% in quelli a medio reddito lottano contro la povertà in forme più o meno gravi. In Africa, questo dato sfiora il 54,8%, mentre in Asia e nel Pacifico tocca il 21,3%. Addirittura negli Stati Uniti, 6,3 milioni di lavoratori sono considerati poveri, ovvero il 4,1% del totale. Nell’Unione Europea, già nel 2017, il 10% della forza lavoro era costituito da lavoratori poveri, con un aumento dell’8% rispetto al decennio precedente.
La posizione di vari sindacati, che spesso si oppongono all’istituzione di un salario minimo, sembra eccessivamente ottimista, considerando la loro efficacia nella difesa dei diritti dei lavoratori in un mondo radicalmente mutato. La globalizzazione, la competizione tra i paesi per abbassare i costi del lavoro, l’automazione e la crescente diffusione di impieghi non standard stanno giocando contro i lavoratori. In molte occasioni, perfino i governi mostrano un maggiore interesse nel sostenere la crescita economica piuttosto che garantire i diritti e la dignità dei lavoratori. Questo è evidente in particolar modo nell’agricoltura italiana, dove si assiste allo sfruttamento dei lavoratori migranti.
La pandemia e l’impennata dell’inflazione del 2022 hanno ulteriormente complicato la situazione. Nel 2020, per la prima volta in due decenni, la percentuale di lavoratori in povertà estrema è salita al 7,2% rispetto al 6,7% del 2019, colpendo soprattutto giovani e donne. L’alto tasso di inflazione del 2022 ha messo ancora di più in luce la vulnerabilità dei lavoratori, i cui salari non sono stati adeguati all’aumento dei prezzi. In termini reali, i salari mensili sono diminuiti dello 0,9% nel 2022, segnando il primo calo in questo secolo. Inoltre, le disuguaglianze tra uomini e donne rimangono significative. Nelle nazioni ricche, le donne guadagnano solamente il 73% di quanto percepiscono gli uomini, mentre nei paesi a basso reddito, questa percentuale scende al 43%.
La crescente esternalizzazione e subappalto della produzione verso “unità economiche flessibili” può rappresentare un vantaggio per le aziende, ma minaccia i diritti dei lavoratori, che dispongono di sempre meno garanzie. La nascita della “gig economy” sembra il risultato diretto di questa tendenza. I salari non sono fissi, ma piuttosto il risultato di dinamiche di potere, e lo Stato deve schierarsi a favore dei lavoratori. Molte nazioni erroneamente ritengono che mantener bassi i salari migliori la loro competitività nelle catene di fornitura globali, ma questa non è una strategia sostenibile né vantaggiosa per nessuno.
Il mondo del lavoro attraversa una fase critica. È necessario un ripensamento radicale del sistema di remunerazione, che deve essere una diretta riflessione del contributo alla società, anziché della capacità di generare profitti. L’adozione di un salario minimo universale rappresenta un passo fondamentale per sconfiggere il lavoro povero. Inoltre, è essenziale che governi, sindacati e aziende collaborino per garantire che i lavoratori ottengano giustizia salariale e condizioni di lavoro dignitose. Solo allora potremo sperare di creare un mondo in cui il lavoro non solo nobilita l’individuo, ma gli permette di sfuggire alla trappola della povertà.