Il mondo è una polveriera. L’inferno esiste, è terrificante. È un insieme di grida e di ossa. Ci fa paura perché ci siamo dentro.
Zdzisław Beksiński (Sanok, 1929- Varsavia, 2005) è stato prima un fotografo, poi uno scultore e infine un pittore. Ogni fase della sua ricerca di espressione è cronologicamente definita, segno di un continuo studio su se stesso che Beksiński ha compiuto.
La vita gli ha regalato una brutta serie di tragedie da digerire: la morte della moglie e il suicidio dell’unico figlio, nonché un incidente stradale a causa del quale entra in coma per tre mesi. Una volta riemerso e passato il suo periodo di riabilitazione, la sua visione artistica cambia radicalmente: ha visto l’inferno, dice, e deve rappresentarlo per evitare di impazzire.
Ed eccolo, l’inferno. Colori cupi, che sanno di polvere alzata dalla tempesta, creature mostruose dalle molte mani nodose e angosciate, sempre intente a stringersi tra di loro nel tentativo disperato di sopravvivenza, con teste deformi e bocche giganti e fameliche.
Ci sono lunghi deserti che si perdono a vista d’occhio in un gioco di prospettiva perfetto, dove l’occhio si perde attraversando cimiteri di ossa e rivoli carmini di sangue.
C’è l’ansia, l’angoscia e la paura più profonda; il caos e il frastuono. Può un’immagine gridarti addosso come il miglior effetto sonoro da film horror, che senti il grido in lontananza e all’improvviso sorvola la tua testa, facendoti sussultare? Può, Zdzisław Beksiński l’ha fatto.
Sono immagini evocative e così definite da fare male. Non c’è molto spazio per l’interpretazione, se non per lo studio di determinati simboli raffigurati in certi quadri, ma il soggetto è quello: l’orrore. Cose che è meglio non vedere, sulle quali è meglio non pensarci troppo.
Oppure no.
Raffigurare l’inferno per non impazzire. Portarlo fuori e limitarlo a una tela, per evitare che divori dentro e avviluppi fino alla perdizione, come in un buco nero. L’atto stesso rivoluzionario dell’arte: esprimersi e liberarsi, tirare fuori per vedersi meglio dentro.
È tutto inferno, su questo non ci piove -ché se piovesse la goccia non arriverebbe a toccare il suolo per quanto è rovente l’aria-. Ma cosa succede quando lo attraversiamo? Cosa ci aspetta, quando ci inoltriamo?
Che ci sia, nonostante tutto, un’oasi in cui rifugiarci?
Qualcuno a cui affidarsi?
Che ci sia, alla fine del viaggio, la consapevolezza che l’inferno esiste, e che il paradiso da raggiungere altro non è che la sua accettazione e l’apprendimento su come conviverci?
Forse che sì, forse che no. Zdzisław Beksiński ha viaggiato per noi, e ha portato con sé queste fotografie.
Che il suo coraggio possa anche essere il nostro, ecco l’auspicio.
Gea Di Bella