“Dalla parte della radice”
Il libro rosso di Marco Luppi, Eretica Edizioni, abita casa mia da alcuni giorni. Viene con me al mare, mi guarda dal tavolo di cucina preparare i pomodori interi, svuotati al centro e riempiti con fiori di zucca, poggiati nel tegame e sotto un fuoco acceso, una fiamma bassa, bassissima.
Il libro rosso di Marco Luppi sale con me le scale e dorme fra i tanti libri nel lato vuoto del letto matrimoniale, un lato abitatissimo di versi, racconti, saggi, storie.
“Dalla parte della radice” di Marco Luppi mi era venuto incontro sui profili del social dove ci leggiamo in tanti, fra simili, e poi ci scegliamo, dove ognuno si costruisce un social a sua immagine e somiglianza.
Versi che mi passavano dalla home, insieme con il viso del poeta, insieme con altri versi, in un discorrere amabile e attento su di noi, attraverso i tanti altri che abbiamo in noi.
Versi su versi conosce Marco.
Eccolo citare “Un uomo vale quanto le cose che ama”.
Saul Bellow, “La resa dei conti”.
Poi Marco aggiunge Per la precisione:
«Com’è che diceva un tale che ho conosciuto? – disse Wilhelm. – «Un uomo vale quanto le cose che ama».
Saul Bellow, “La resa dei conti”.
“Ognuno vale quanto le cose a cui dà importanza”.
Marco Aurelio. In lui la citazione è un dialogo.
Leggo la prefazione di Pier Damiano Ori, lui stesso raffinato poeta, sua l’opera “Occhio e Orecchio” da poco in libreria, e non posso che non essere d’accordo sul suo incipit. “Poesia di pensiero e di indignazione”, dice Pier Damiano Ori dei versi di Marco Luppi.
Mi innamoro di una nota d’autore, forse perché già avevo letto una plaquette nella quale Massimo Celani aveva scritto “La distanza di noi stessi” e anche Marco scrive che “Le persone sono luoghi lontani dalle coordinate in cui si trovano” e illusi, nel credere coordinate quel tavolo e quel luogo corporeo abitato, già facciamo una solida delimitazione dei corpi” dice Kafka. Spaventosa cosa.
Compito dunque della poesia è infrangere la solida delimitazione dei corpi, per saltare il cerchio, per saltare il fosso, per saltare un gradino, per saltare ciò che con il corpo io non potrei.
Le persone sono luoghi lontani, lontane da noi, certo, ma anche lontane dal loro appartenere a quello spazio che occupano. Essere tutti lontani dallo spazio occupato affinché nemmeno la solitudine possa raggiungerci, questa la consapevolezza con i versi in mano.
” Siamo versi scritti di un foglietto stropicciato” scrive Marco Luppi “che da sempre qualcun altro porta a sua insaputa nelle tasche.”
Ricordo una sera con Neri Marcorè. Presentando la sua vita, il cinema, le imitazioni, lui disse uguale. Ed io mi portai nella tasca la poesia che ci recitò alla fine.
“Tempo verrà
in cui, con esultanza,
saluterai te stesso arrivato
alla tua porta, nel tuo proprio specchio,
e ognuno sorriderà al benvenuto dell’altro,
e dirà: Siedi qui. Mangia.”
Dal libro “Mappa del nuovo mondo” di Derek Walcott.
Nella tasca ti porteremo, scrissi di ritorno a casa, e ciò che ci portiamo nelle tasche, ognuno di noi, di un altro ancora, siamo noi.
Mi piace leggere in Marco, come lui stesso scrive “Nel portagioie la veggenza della fantasia, nel poco, nel niente di cose di poco conto”.
Mi piace leggere in Marco “Le cose che non mi piacciono, le cose che mi piacciono”.
Essere amici nel verso di poesia civile, comporta una protesta, una riflessione, una tensione morale, e simile sembra “la tassidermia del verbo e dei ricordi.”
Si può, con un verso in testa, andare fieri. “Contento di non essere convinto, convinto di non essere contento.” Impegno e lotta per preservare l’individualità di ognuno di noi, come regalo, come “medaglioni in cerchi d’albero al centro”.
Dalla parte della radice “I poeti raschiano il fondo della vita che lasciano” ” Mai sullo stesso piano” ” Adducendo amore”.
Nel suo primo libro di poesia gli enunciati che lo accompagneranno per versi e versi, con le scarpe ben allacciate per consentirgli di raggiungerci, quando vuole.
“La distanza da noi stessi” (anche se il lapsus “di” è intrigante) ovviamente non è un mio conio ma una citazione, non ricordo più di chi tanto è assimilata. Potrebbe essere Edmond Jabès o Ettore Perrella, psicanalista quest’ultimo a me particolarmente caro.
Ammetto di invidiare un po’ quel libro rosso che sale con te le scale e che “dorme fra i tanti libri nel lato vuoto del letto matrimoniale, un lato abitatissimo di versi, racconti, saggi, storie”. E – più in generale – “gli enunciati che lo accompagneranno per versi e versi, con le scarpe ben allacciate per consentirgli di raggiungerci, quando vuole”. Partouze, perversioni di (e anche “da”) letto, tra scrittori e lettori, re e regine sporcaccione della letteratura / lituraterra, di cui ancora non c’è traccia nel DSM -5 (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders). Ippolita, che dire? Di-a-da-in-con-su-per-tra-fra.
Penso e leggo “da” e scrivo “di”, fra pensiero e azione un da diventa di. Preposizioni semplici che occuperemo