Oggi è il 1° maggio e in tutta Italia celebriamo la Festa dei Lavoratori (e delle Lavoratrici). Ma in questa giornata ricordiamo ancora poco una particolare categoria di lavoratori e lavoratrici: è quella di chi cuce e produce i nostri vestiti. Qual è il prezzo da pagare quando compriamo nei negozi fast fashion? E chi lo paga al posto nostro?
Lavoro e fast fashion: il 1° maggio e i diritti dimenticati di chi produce i nostri vestiti
Lavoro e fast fashion non vanno d’accordo con i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici che producono i nostri vestiti. Nella giornata della Festa dei Lavoratori, il tema della moda fast fashion offre l’occasione di ragionare di diversi temi: lavoro e diritti, sostenibilità ambientale, femminismo, consumismo.
Urban Dictionary definisce l’abbigliamento fast fashion nel seguente modo.
Il ricambio sempre più veloce di versioni fabbricate a buon mercato di trend di design di alto livello, o di lusso. (traduzione mia)
In una società consumista, dove è importante poter accedere a molti oggetti subito e a basso costo, l’abbigliamento fast fashion mette d’accordo tutti e tutte. È carino, è alla moda, ci permette di soddisfare il nostro bisogno di comprare, di consumare, e, soprattutto, di possedere molti oggetti.
E poi, costa poco. L’abbigliamento che possiamo comprare nelle catene di fast fashion per molte persone ha un prezzo accessibile; questo permette di comprare privilegiando la quantità invece della qualità.
È diventato sempre più facile ignorare cosa rende a basso costo quei capi di abbigliamento. Se non paghiamo noi il vero costo di un capo d’abbigliamento, c’è sempre qualcuno che l’ha pagato al posto nostro. Nel caso della moda fast fashion, le opzioni – solitamente – sono tre. O le persone che hanno cucito i nostri vestiti sono state sottopagate, o i metodi di produzione utilizzati non sono sostenibili a livello ambientale, o – e accade frequentemente – sono vere entrambe. L’unico motivo per cui possiamo acquistare una t-shirt a 10€ è che – a un certo punto della nascita di tale maglietta – qualcuno è stato sfruttato.
Quanto può essere etico e femminista indossare una maglietta con slogan femministi che è stata prodotta da una donna sottopagata, sfruttata e – spesso – oggetto di violenze?
La pericolosità del lavoro sottopagato e della moda fast fashion. Il crollo del Rana Plaza
Un esempio conosciuto e molto utilizzato è quello del crollo del Rana Plaza. Come riporta il sito di Clean Clothes Campaing,
Il crollo della fabbrica del Rana Plaza in Bangladesh è stato il peggior incidente industriale che ha coinvolto l’industria dell’abbigliamento. È stato seguito da una lotta per la giustizia per i lavoratori e le lavoratrici del Rana Plaza e per le fabbriche sicure per tutti e tutte. (traduzione mia)
Il Rana Plaza è crollato 10 anni fa, il 24 aprile 2013. La fabbrica Rana Plaza è crollata sulla testa delle persone che stavano lavorando all’interno, uccidendo 1134 persone e ferendone il doppio. Tra le aziende che utilizzavano la fabbrica Rana Plaza c’era Benetton, che dopo molte pressioni e due anni di lotta da parte della Campagna Abiti Puliti ha annunciato – nel 2015 – il rimborso di soli 1.1 milioni di dollari per le famiglie delle vittime del crollo.
La Fashion Revolution Week
Dopo il crollo del Rana Plaza, nel 2013 è nata – fondata da Carry Somers e Orsola de Castro – la Fashion Revolution. La Fashion Revolution è
un movimento globale di persone che fanno funzionare l’industria della moda. Siamo le persone che indossano i vestiti. E siamo le persone che li producono. (traduzione mia)
Quest’anno, la Fashion Revolution Week si è tenuta dal 22 al 29 aprile. Ogni anno, la Fashion Revolution Week consiste in una settimana di azioni ed eventi per parlare della moda fast fashion e dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici. Attivisti e attiviste contribuiscono a sensibilizzare sul tema, si incontrano dal vivo nei propri territori e utilizzano i social per far conoscere a cittadine e cittadini quali alternative esistono all’abbigliamento fast fashion.
Cosa possiamo fare?
Innanzitutto, possiamo informarci su come vengono prodotti i vestiti che indossiamo. Un primo modo di avvicinarsi al tema è il documentario The True Cost, uscito nel 2015. The True Cost parla di fast fashion e di consumismo, ma soprattutto – come suggerisce il nome – del vero costo che ha l’abbigliamento quando i negozi fast fashion lo vendono a prezzi così bassi.
Dobbiamo consumare – quando è necessario farlo – in modo diverso. Possiamo partecipare alle iniziative e ai mercatini solidali che nascono nelle nostre comunità. Possiamo comprare abiti usati, per dargli una seconda vita ed evitare che finiscano in una discarica. Se ne abbiamo la possibilità economica, smettiamo di acquistare i nostri vestiti nei negozi fast fashion. Compriamo meno, e compriamo bene, da artigiani e artigiane. I capi dureranno per decenni, perché fatti con cura da persone retribuite equamente.
Possiamo trovare un modo, nella nostra vita quotidiana, di dare dignità al lavoro, ai lavoratori e alle lavoratrici. Soprattutto, possiamo consumare molto meno, e meglio.
“Compriamo meno, e compriamo bene, da artigiani e artigiane. I capi dureranno per decenni, perché fatti con cura da persone retribuite equamente.”
Sono completamente d’accordo.
Non solo le cose sarebbero di qualità maggiore, ma dietro di esse vi sarebbe l’arte e l’impegno di qualcuno che produce l’oggetto – quasi – dall’inizio alla fine, risultando in un valore aggiungo, non tanto economico quanto umano.
Ma quanto sarebbe bello se man mano cominciassimo a vivere di poche cose ma buone, per la maggior parte fatte a mano?
Come esseri umani abbiamo davvero pochissimi bisogni, il resto è tutta perdita di tempo.
Con le tecnologie odierne potremmo vivere da nababbi, e goderci la vita.