Telecamere o droni sorvegliano le città promettendoci di proteggerci dai malintenzionati e controllare che le leggi vengano rispettate. I cittadini accettano così di essere costantemente osservati in cambio di maggiore sicurezza, il prezzo da pagare è la sempre maggiore mancanza di privacy
Viviamo in società ipercontrollate in cui ogni nostra azione può essere ripresa da occhi indiscreti e diventare di dominio pubblico. Hannah Arendt nel 1964 scriveva:
“Affinché un individuo possa essere efficace dal punto di vista politico, occorre raggiunga un equilibrio tra i due estremi dell’essere esposto alla luce così pungente della sfera pubblica e la tendenza al ripiegamento nella zona accuratamente protetta della vita domestica o privata.”
Sembra dunque necessario un equilibrio pubblico e privato, ma oggi esiste ancora una netta separazione tra queste due sfere?
Attraverso i contenuti che pubblichiamo sui social network decidiamo di condividere la nostra vita quotidiana e permettiamo a tutti di sapere cosa facciamo, dove siamo e con chi. In questo modo la maggior parte delle persone sceglie di esporsi, di essere costantemente sorvegliato e di rendere pubblico il privato.
Ci sono degli aspetti positivi?
Nel film The Circle del 2017 (adattamento dell’omonimo romanzo di Dave Eggers), si immagina una società del futuro in cui si promuove la condivisione perenne delle proprie vite. Una multinazionale di social media mostra i benefici dell’essere “trasparenti” e sempre connessi: si possono condividere luoghi ed esperienze con chi non può viverle in prima persona, si è in contatto con una comunità virtuale, ma soprattutto si può essere salvati in caso di pericolo.
Sociologi e psicologi hanno a lungo osservato i comportamenti umani all’interno di società ipercontrollate. Possiamo così confermare che le telecamere non sono utili solo a rintracciare criminali che hanno già commesso un reato, ma anche a prevenirlo. Infatti, i meccanismi di controllo permettono di disciplinare i comportamenti poiché si è più propensi a comportarsi bene e ad obbedire se si sa di poter essere visti.
Questo semplice concetto è stato ripreso anche nell’ambito dei sistemi di sorveglianza all’interno delle carceri.
Società e prigioni
Michel Foucault in “Sorvegliare e punire. Nascita della prigione” parla del Panopticon. Si tratta di un’architettura ideata nel Settecento da Jeremy Bentham allo scopo di controllare facilmente i detenuti. Egli pensa di collocare le celle in una struttura circolare con al centro una torre di sorveglianza. Da qui anche una singola guardia poteva osservare tutti i carcerati, che a loro volta non potevano vedere la guardia e quindi restavano nell’incertezza di essere controllati oppure no. Il termine Panopticon in greco significa “l’occhio che tutto vede” e fa riferimento anche ad Argo Panoptes, il gigante dai cento occhi. Nell’idea del suo inventore, l’imposizione di un comportamento avrebbe col tempo educato i prigionieri che, una volta liberi, avrebbero continuato ad agire correttamente come “d’abitudine”.
Esistono però dei lati negativi: ci si sente oppressi e schiacciati dal potere, anziché comprendere le ragioni della reclusione attraverso un vero percorso educativo.
L’esempio del Panopticon può essere considerato una metafora della società ipercontrollata contemporanea: noi sempre in bella vista, sotto l’occhio vigile di una telecamera di videosorveglianza o del nostro stesso cellulare, ma chi è al potere resta nascosto imponendoci delle regole.
Siamo disposti a barattare le nostre vite private ed essere sempre sotto controllo? Forse lo abbiamo già fatto.