Accade il 19 marzo 1992. Giuseppe Diana, colto di sorpresa nella sua parrocchia, muore, ucciso da 5 colpi di pistola.
Una vita semplice
Giuseppe Diana, chiamato anche Peppe Diana o Don Peppino è il parroco della parrocchia di San Nicola di Bari in Casal di Principe, dove era nato il 28 luglio 1958. Frequenta le scuole medie e il liceo classico ad Aversa. A Posillipo si laurea in teologia biblica e, in seguito, anche in Filosofia presso l’Università Federico II di Napoli. Nel 1978 entra nell’Associazione Guide e Scouts Cattolici Italiani (AGESCI), come caporeparto. Nel marzo 1982 è ordinato sacerdote. Il 19 settembre del 1989 è parroco della parrocchia della sua città natale e in seguito anche segretario del vescovo della diocesi di Aversa, monsignor Giovanni Gazza.
Don Peppino coltivava diverse passioni. Tra queste il calcio. Le domeniche non mancava mai sugli spalti dello stadio San Paolo di Napoli, per tifare assieme ai suoi ragazzi. Si dedicava assiduamente al volontariato. Don Peppe era infatti anche cappellano dell’Unitalsi. Accompagnava i malati nei viaggi a Lourdes, essendo anche assistente nazionale del settore Foulard Blanc. Era una persona semplice, limpida. Amava girare per il paese in jeans e maglia, anziché in tonaca, fumando il suo sigaro preferito.
Gli anni di Sandokan e l’attivismo di Don Peppe
In quegli anni, Casal di Principe è nelle mani di Francesco Schiavone, detto Sandokan. I Casalesi gestiscono, oltre ai traffici illeciti, anche l’economia legale, trasformandosi nella cosiddetta “camorra imprenditrice”. Don Peppe si schiera subito dalla parte della giustizia, senza paura e con grande coraggio. Prende parte attiva alla propaganda contro la camorra, arrivando anche a fare nomi e cognomi dei camorristi nelle sue prediche domenicali.
Il suo impegno civile e religioso era evidente a tutti. Dalle prediche ricche di passione, ma anche molto dirette e concrete, alla realizzazione di un centro di accoglienza per gli immigrati. Questo fu istituito grazie ai fondi personali di Don Peppe, ricavati dalla sua professione di insegnante di lettere, perché pensava che fosse necessario accoglierli per evitare che i clan potessero iniziare a farne dei perfetti soldati.
Don Peppino non voleva fare il prete consolatore, che accompagna le bare dei ragazzini soldato massacrati alla fossa e bisbiglia “fatevi coraggio” alle madri in nero
Così lo descriveva Saviano in “Gomorra“.
Per amor del mio popolo non tacerò
Don Peppino scrisse una lettera emblematica della sua lotta contro la camorra. Per amore del mio popolo non tacerò, che nel Natale del 1991 risuonava letta dai parroci in tutte le chiese di Casal di Principe. Un vero e proprio manifesto contro uno dei peggiori mali della sua terra.
L’assassinio di Don Peppe Diana
È il giorno del suo onomastico, il 19 marzo 1994, quando alle 7.20 un camorrista uccide don Giuseppe Diana nella sua sagrestia appena prima della celebrazione della Messa. 5 proiettili colpiscono il parroco: due alla testa, uno al volto, uno alla mano e uno al collo. La morte, istantanea, lo porta via all’età di trentasei anni.
“Chi è don Peppino?” “Sono io ”
Le ultime parole, seguite da una scarica di proiettili.
Secondo le indagini don Diana aveva rifiutato la celebrazione dei funerali in chiesa di un malavitoso e questo gesto rappresentava un affronto troppo duro da tollerare. Fu il nipote del morto, infatti, ad entrate tre giorni dopo in sagrestia e sparare al sacerdote.
Un prete che ha lasciato il segno
Il 25 aprile 2006, a Casal di Principe, venne ufficialmente costituito il Comitato don Peppe Diana, un’associazione di promozione sociale al servizio di coloro che, come don Peppe, si ponevano come obiettivo la costruzione di una comunità libera dalla camorra e con lo scopo di ricordare sempre il sacerdote scomparso per amore della giustizia. Con l’aiuto di Libera, nelle terre confiscate ai clan nel casertano, operano cooperative agricole che promuovono i prodotti tipici del luogo nel nome di don Diana.
Lo Stato gli ha inoltre conferito la medaglia d’oro al valore civile per essere stato in prima linea contro il racket e lo sfruttamento degli extracomunitari, e perché, pur consapevole di esporsi a rischi mortali, non ha mai esitato a schierarsi nella lotta contro la camorra.
Tenendo sulla punta della lingua lo strumento, l’unico possibile per tentare di mutare il suo tempo. La parola. E questa parola, incapace di silenzio, fu la sua condanna a morte