Aveva 42 anni Giuseppe Montalbano quando è stato assassinato il 3 marzo 1861 in Sicilia. È considerato la prima vittima innocente di mafia in Italia. L’esecuzione avvenne davanti alla sua abitazione a Santa Margherita di Belice, con tre fucilate dritte nella schiena.
Giuseppe Montalbano è stato medico, politico e patriota, ed ha partecipato a molte delle imprese nazionalistiche di quegli anni. Tra queste, la rivoluzione palermitana del 1848. Aveva radunato diversi rivoltosi per unirsi poi ai Mille di Garibaldi e sostenerne la causa nelle campagne di Salemi.
Ha coronato la sua carriera politica con l’ottenimento del titolo di consigliere, prima comunale poi provinciale. Ed è stato in queste vesti che ha iniziato ad ostacolare le ambizioni della principessa Giovanna Filangieri, una figura appoggiata dalla borghesia, da lungo tempo legata alla dinastia borbonica.
Giuseppe Montalbano aveva deciso di guidare i contadini suoi concittadini per la rivendicazione di tre feudi comunali, rimasti nelle mani della principessa. La morte avvenne proprio dietro suo mandato, a seguito di una serie di minacce a cui Montalbano decise di non dare conto.
I suoi compagni decisero di vendicarlo, attaccando il Circolo dei Civili, dove erano presenti gli esecutori dell’omicidio.
Durante la protesta, i manifestanti denunciarono i mandanti, gli esecutori e il movente del crimine, ma non vennero ascoltati e, al contrario, perseguiti. Alla fine, riuscirono ad assediare il municipio della città per due giorni, ma sulla sua morte non si indagò.
Alla vigilia della nascita del Regno d’Italia, dunque, si verifica il primo omicidio da parte della criminalità organizzata. Il Regno d’Italia nasce il 17 marzo 1861, appena due settimane dopo, e, nella confusione che deve essere stato quel periodo storico, la volontà di ricercare i colpevoli del fatto sembra venire meno.
Il nipote di Montalbano, anch’esso Giuseppe Montalbano in suo onore, affermerà che le autorità competenti non svolsero nessuna attività per rintracciare i colpevoli. Poiché la responsabilità sta nelle mani del capo dell’esecutivo, Montalbano nipote punta il dito contro l’allora Primo Ministro, Cavour.
Si deve criticare la lassezza di Cavour, ma allo stesso tempo si deve contestualizzare nel difficile momento storico che si stava attraversando. A seguito dello sbarco dei Mille, infatti, i liberali, ossia lo schieramento di Cavour, avevano cominciato a perdere terreno davanti ai democratici e repubblicani. Forse anche per questo Cavour decise di non occuparsi dell’accaduto e cercare di accaparrarsi il sostegno dei tanti latifondisti ancora presenti in Sicilia.
Da questa vicenda, sembra di poter affermare che la commistione Stato-mafia in Italia esiste esattamente dal momento della sua creazione. Pare quasi che fosse parte fondante del sistema statale italiano.
Ogni decisione presuppone una scelta, e la scelta di ignorare un accadimento del genere dimostra l’impossibilità per uno Stato appena nato di rispondere ad un crimine mafioso e combattere con un sistema che in quel momento risulta più organizzato e capillarmente distribuito nella società.
Molti si chiedono se non sia stato proprio questo il momento storico in cui la mafia si è inserita nel tessuto sociale e politico italiano, grazie alle prime riforme del Regno.
Questo rovescerebbe una narrazione che vuole dipingere i cittadini come colpevoli del proprio affiliamento al sistema mafioso. Piuttosto sarebbe necessario analizzare le responsabilità di chi guida il Paese. Identificare nella vittima l’unico responsabile del proprio destino conduce ad una narrazione tossica degli eventi, che rimane distaccata dalla realtà, sempre molto più complessa di quanto si creda.
Senza cadere nella banale contrapposizione di bene e male, è doveroso analizzare un fatto che è diventato storia senza che si attribuissero le responsabilità, come tanti altri nella nostra storia unitaria.