Per anni la politica estera del Vaticano è sembrata stendersi pigramente sulla maggior parte delle posizioni occidentali. Oggi, invece, appare evidente come la Santa Sede persegua con sicurezza obbiettivi internazionali sempre meno eurocentrici. Sopportando le accuse di ambiguità riguardo a sempre più dossier.
La politica estera del Vaticano è un unicum
L’11 ottobre 1962 si aprono i lavori del Concilio Vaticano II. Il più importante evento del mondo cattolico degli ultimi cinque secoli nasceva dalla necessità di rimodellare la Chiesa secondo nuovi criteri. Cambiare la narrazione ecclesiastica per non finire nel baratro della storia. Tre giorni dopo l’inizio del Concilio, un aereo spia americano fotografa installazioni missilistiche sovietiche sull’isola di Cuba, a 90 chilometri dalle coste della Florida. Il Presidente Kennedy ordina il blocco navale dell’isola. Inizia la crisi dei missili, che porta il mondo sull’orlo dell’olocausto nucleare.
Gli eventi d’oltreoceano colsero la diplomazia Vaticana completamente impreparata. In pieno Concilio, i Cardinali valutarono la possibilità di un nuovo approccio nei confronti dei sovietici. Tale approccio in parte precedette, ma ne fu poi molto alimentato, l’Ostpolitik promossa un decennio più tardi dal Cancelliere della Repubblica Federale Tedesca, Willy Brandt. In sintesi, non più irremovibile chiusura nei confronti dell’est, ma intensificazione delle aperture diplomatiche ed ecumeniche nel tentativo di stemperare i rapporti con Mosca, obbiettivo non sempre raggiunto negli anni successivi.
Tale atteggiamento non rappresentò in realtà una novità nella politica pontificia nei confronti dell’altro. Piuttosto, il ritorno, dopo il turbolento periodo del primo dopo guerra, ad un indirizzo diplomatico che ne aveva quasi sempre definita l’azione nei secoli. La tendenza a mantenersi super partes nei periodi di frizione tra soggetti geopolitici è un elemento che si ritrova spesso nella storia della Santa Sede. Niente di straordinario, quindi, eppure l’ultimo mezzo secolo di relativa tranquillità ha fatto dimenticare questa caratteristica all’opinione pubblica europea. Così come il fatto che quello pontificio resta il più influente soggetto globale del continente.
La nebbia di tali dimenticanze, soprattutto della prima, sembra venir oggi diradata dagli eventi in Ucraina.
Le ambiguità della politica estera del Vaticano in Ucraina
Nel 2016 in Donbass si era già iniziato a sparare. Le truppe russe, tuttavia, non avevano ancora superato il confine e a combattere contro l’esercito di Kiev erano soltanto i separatisti ucraini (ufficialmente). In Occidente si guardava all’ora con pigro disinteresse a ciò che stava succedendo, per quanto, con il senno di poi, fosse molto chiaro che strada il conflitto stesse imboccando. Così, passò sotto traccia l’incontro a l’Havana tra il patriarca di Mosca, Kirill, e Papa Francesco. Durante l’incontro venne firmato un comunicato congiunto che ancora oggi rispecchia l’atteggiamento della Chiesa nei confronti del conflitto. Fermissima condanna delle violenze, preghiere e sostegno, anche materiale, alle popolazioni colpite dalla tragedia e, soprattutto, totale assenza di accuse all’aggressore. Per essere precisi, totale assenza di riferimenti all’aggressione.
Arriviamo al 2023. La guerra, quella vera, ha quasi compiuto un anno. L’atteggiamento della Santa Sede, tuttavia, non sembra essere cambiato, a parte per una timida apertura nei confronti dell’invio di armi a Kiev. Apertura che è stata fagocitata dalla retorica della difesa, senza che, ancora, venisse citato il termine aggressione. Nel frattempo, nel resto del mondo vengono prese posizioni chiare, che siano di sostegno per uno dei due contendenti oppure di consapevole disinteresse per l’intera questione, a favore del mantenimento di relazioni privilegiate (è il caso dell’India e, in misura minore, di Israele).
In un contesto nel quale il mondo intero sceglie una posizione, la ripetitività, in un certo senso la banalità, delle parole del Papa suona ambigua alle orecchie di sempre più ascoltatori. Ci si chiede a cosa sia dovuto l’apparente silenzio della guida morale di quasi un miliardo e mezzo di anime nel mondo. Il fatto è che il Vaticano gioca su un tavolo diverso rispetto al resto del mondo, e lo fa da due millenni.
La visione del mondo della Chiesa
Dal 2021 fino al 2024 si tiene il Sinodo dei Vescovi, un’assemblea post conciliare con il compito di redigere una serie di suggerimenti da rivolgere al Pontefice riguardo il governo della Chiesa. Dal 5 al 9 febbraio 2023 le riunioni sono state ospitate dal Vescovo di Praga, Romuald Kamiński, che ha aperto i lavori con parole che riassumono la linea della Santa Sede nei confronti di ciò che sta succedendo nel mondo:
Smettete di pensare in categorie mondane e adottate il modo di pensare di Dio. Non imponete la vostra visione, ma abbracciate la visione di Dio. […] Nessuna saggezza umana, astuzia o scusa ci aiuterà a uscire da questa situazione. E, naturalmente, non si dovrebbe cercare di conformarsi al mondo.
Durante la guerra fredda c’era stata l’impressione che la Chiesa fosse schierata con l’ovest, soprattutto grazie all’elezione di un energico Papa polacco, Giovanni Paolo II, che non nascondeva la sua avversione per il Patto di Varsavia, pur non negandone il dialogo.
Eppure, già con Giovanni Paolo II non era difficile intuire le differenze di visione tra Santa Sede e mondo libero. Comprendere, in poche parole, il carattere da “battitore libero” del Soglio di San Pietro. Un esempio, le visite ad una dittatura militare filofascista come quella di Pinochet e ad una comunista come quella di Castro, fatte con il medesimo spirito ecumenico. Visite che avranno probabilmente fatto suonare qualche campanello dall’arme dalle parti di Washington, ma che non cambiarono la narrazione di un pontificato inteso come campione della causa occidentale. Si continuò, insomma, ad ignorare il fatto che le relazioni della Santa Sede con il mondo fossero mosse e trovassero giustificazione in motivi diversi, e per certi versi incomprensibili, da quelli di qualsiasi altra capitale.
Il pontificato di Francesco ha definitivamente sfatato questa superficiale narrazione.
La politica estera del Vaticano sotto Francesco
Nel 2013, per la prima volta nella sua storia, il Conclave elegge un Papa non europeo. Non solo il primo Papa, per sua stessa ammissione, proveniente dalla fine del mondo, ma anche il primo gesuita.
Come sempre accade il pontificato ha riflettuto, e riflette, il suo Pontefice. Nell’ultimo decennio, infatti, la visione della Chiesa ha spaziato parecchio, superando di molto gli orizzonti visivi precedenti. La nuova regola aurea è fare delle periferie il centro. Mai come oggi l’interesse di Roma (non della nostra, chiaramente) si è discostato dall’occidente, tanto dai suoi territori quanto dalla sua sensibilità, per concentrarsi in regioni del mondo da noi considerate “altre”. Nemiche, in alcuni casi.
Nel citato caso ucraino, ad esempio, dove Francesco, a guerra già iniziata, invitava a non ridurre a buoni e cattivi le parti in causa. Ma prima dell’Ucraina ci sono stati i Rapporti con la Cina. Quella delle relazioni con Pechino è stata una delle svolte più importanti della politica estera del Vaticano degli ultimi anni. I primi missionari cattolici ad essere ammessi in Cina giungono a Pechino nel 1601, e sono gesuiti. Oggi la penetrazione nel dragone viene ripresa con la firma degli accordi provvisori tra Santa Sede e Pechino del 2018. L’accordo verte sulla nomina dei Vescovi cinesi, decisi da Roma ma necessariamente approvati dal governo locale.
Se la necessità di un’approvazione governativa per la nomina di cariche religiose può apparire uno scandalo morale ed un segno di debolezza vaticana, si ricordi la lotta per le investiture tra Chiesa e Sacro Romano Impero nell’XI secolo. La questione non era molto diversa, e mentre oggi la Chiesa è sempre al suo posto, del Sacro Romano Impero non è rimasta traccia.
A non approvare in alcun modo le distensioni con l’estremo oriente da parte della Curia è Washington. Nonostante la continuazione del riconoscimento morale della figura del Pontefice e l’elezione del secondo Presidente cattolico nella storia USA, negli states l’approvazione nei confronti di Francesco è molto scemata negli ultimi anni. Pesa la mano tesa a Pechino, l’ambiguità in Ucraina, l’assenza di un sostegno deciso in contesti che stanno molto a cuore agli americani, come ad esempio il Venezuela, dove la ricerca ecclesiastica di dialogo tra Guaidò e Maduro è stata intesa come appoggio a quest’ultimo. Pesa anche lo sguardo fisso al terzo mondo e la trattazione di temi (ad esempio la timida apertura nei confronti dell’omosessualità) considerati non solo lontani, ma ostili, da buona parte dei cattolici statunitensi.
Il rischio di una frattura con la Chiesa americana è per adesso lontano. Tuttavia, il termine scisma ha iniziato ad essere utilizzato nelle interviste, tanto dal Papa quanto dai vescovi al di là e al di qua dell’Atlantico.
Oltre a queste frizioni, si nota la crescita della competizione per il primato religioso in Sud America, dove le Chiese Evangeliche di ispirazione statunitense stanno crescendo a vista d’occhio, soppiantando in molte regioni il primato romano. Washington sembra aver iniziato a dare ascolto a quei campanelli d’allarme ignorati durante il pontificato di Giovanni Paolo II, e a considerare ormai a tutti gli effetti il Vaticano come un soggetto esterno alla propria galassia. Quindi, competitivo.
La culla della nuova Chiesa
La Chiesa di Francesco, riassumendo, si espande lentamente in Asia, sta sulla difensiva nelle Americhe, cerca un faticoso e criticato dialogo in Europa Orientale. Ma nessuno di questi tre soggetti è il baricentro della politica estera del Vaticano. Ciò di cui oggi la Santa Sede ha disperato bisogno sono forze giovani e numerose. Quelle forze che don Aldo Bonaiuto definisce il tesoro più prezioso dell’Africa.
L’apertura del Giubileo il 29 novembre 2016 nella Cattedrale di Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana, ha fugato gli ultimi dubbi di chi ancora non vedeva nel più povero continente del mondo il cuore geopolitico della nuova Chiesa francescana. È in Africa che si registra il maggiore aumento di vocazioni. Considerando, poi, che l’Africa Subsahariana, dove il Cattolicesimo è pressoché incontrastato, è la regione globale con la più alta crescita demografica, è facile intuire come il numero dei fedeli di Roma continuerà a crescere. Nonostante le frizioni in Nord America ed il crescente secolarismo in Europa Occidentale.
I contrasti interni
A fare ombra sulle luminose convinzioni del papato riguardo alla nuova politica estera del Vaticano, non mancano tuttavia malumori interni. Le fazioni più tradizionaliste della Curia ritengono che le aperture nei confronti di diversi regimi autoritari danneggino l’immagine e la missione della Chiesa. Oltre a ciò, si lamentano gli scarsi risultati di tale politica, considerando i rapporti con il Patriarcato di Mosca ormai congelati e gli accordi con Pechino troppo sfavorevoli per la Santa Sede. In molti oltretevere ritengono che l’attuale linea sarà allentata, se non addirittura messa da parte, con il successore di Francesco. Questa considerazione, però, appare improbabile.
Negli ultimi anni Francesco ha nominato 113 nuovi cardinali (Bendetto XVI ne aveva nominati 64; Giovanni Paolo II, in più di 26 anni di pontificato, appena 52). Di questi, 83 saranno elettori del prossimo Pontefice (sui 134 che compongono l’intero Conclave). Questi nuovi cardinali, praticamente tutti sostenitori della corrente terzomondista del Papa, assicureranno il mantenimento dell’attuale rotta anche nel prossimo pontificato. Confermando la natura sempre meno eurocentrica della Chiesa Universale.