L’amore in greco antico può dirsi in tanti modi diversi: in questo articolo abbiamo scelto di presentarne qualcuno come omaggio a San Valentino.
L’amore in greco antico, come l’essere secondo il filosofo Aristotele, si dice in molti modi. Oggi che in tutto il mondo si celebra l’amore romantico, è forse l’occasione perfetta per aprire il vocabolario e spulciarlo un po’. I suoi lemmi, infatti, potrebbero riservarci qualche sorpresa su un vissuto che a volte ci sembra di conoscere come le nostre tasche.
L’amore in greco antico: eros (ἔρως )…
Tra tutte le espressioni possibili dell’amore in greco antico, questa è forse la più nota anche ai non grecisti. Si tratta dell’amore passionale, carnale, quello legato alla fertilità del corpo e dell’anima. Una forma d’amore potente ma pericolosa, perché dominio dell’irrazionale. L’eros, infatti, è quell’amore che è passione, che pone l’individualità in una posizione passiva, quasi soggiogata, facendo perdere di vista i propri obiettivi. È quell’amore che, se non si sta attenti, può far dimenticare di sé stessi.
Non a caso, del resto, nella mitologia greca Eros è un dio-bambino, figlio di Afrodite, capriccioso e a stento controllabile. Una mina vagante armata di dardi che, scoccati a vittime ignare, combinano tremendi pasticci mettendo il cuore in tumulto.
… E antéros (᾿Αντέρως)
Non tutti lo sanno, ma Eros nel pantheon greco ha un contraltare, un corrispettivo che lo bilancia e lo mantiene in equilibrio: il fratello Antéros. Generato da Afrodite con Ares su consiglio della dea Temi, divinità della legge e dell’ordine, Antéros è l’amore corrisposto. Quello di un coniuge, di un compagno o una compagna, quello che al dilagare della passione carnale pone il freno della stabilità.
L’amore in greco antico, quantomeno quello tra due persone, si trova in effetti compendiato nel rapporto tra questi due fratelli. Che, crescendo insieme, tirano fuori l’uno il meglio dell’altro. Non solo: la finezza psicologica degli antichi nel costruire il mito è tale da descrivere anche gli effetti deleteri del separarsi di questi due versanti dell’amore. Infatti, raccontavano i Greci, quando Antéros ed Eros si separano, il più piccolo e pestifero dei due regredisce, ricominciando a fare i suoi guai. Torna a stravolgere chi lo vive facendolo sbatacchiare di qua e di là senza direzione, seminando il caos.
L’amore in greco antico: anche Charis (χάρις), hímeros (ἵμερος) e póthos (Πόθος)
Non bisogna credere, però, che eros e antéros siano i soli modi in cui si può dire l’amore in greco antico.
Esiste, per esempio, anche il cháris, che è l’amore idilliaco, perfetto e corrisposto. Si tratta dell’amore che si riscontra quando entrambi i partner nella coppia si concedono parimenti fisicamente e spiritualmente, senza riserve. Il cháris è il sentimento che porta al tipo di gioia forse più appagata e perfetta in relazione.
All’estremo opposto del cháris, per certi versi, si trova l’hímeros. E cioè il desiderio, per certi versi fratello di Eros e figlio di Afrodite, impulsivo e bruciante. Quello che come eros non sente ragioni, va appagato immediatamente, ma è fisico, carnale, più che emotivo e quindi si estingue nell’amplesso.
Tra l’uno e l’altro si trova il póthos, che è l’amore adolescenziale, la cotta. Anch’esso fratello di Eros, è l’infatuazione da lontano e il desiderio che diviene bruciante prima ancora dell’incontro. Giovanissimo anche se non necessariamente prerogativa giovanile, il póthos è l’amore che deve passare una prova. Cioè, per diventare maturo è quell’amore che deve mettersi di fronte ai difetti propri e altrui.
Agápe (αγάπη)
L’amore in greco antico, però, si dice anche agápe. Molto usato nei Vangeli e nel contesto religioso, l’agápe è l’amore che va quasi al di là delle forze umane. Quello che si pasce dell’oggetto d’amore, facendo sentire il cuore che si gonfia nel petto al solo pensarlo. Al sapere che esiste da qualche parte, al poterlo contemplare con gli occhi o con la mente.
L’agápe è un sentimento bello e difficile, perché porta con sé struggimento e idealizzazione. Esso, infatti, dipinge l’oggetto amato esattamente come faceva Gustav Klimt, in un tripudio di colori e lamine d’oro. Meraviglioso, certo, ma come riportare poi, se mai, questo sentimento dal cielo alla terra senza che si schianti?
Pragma (πρᾶγμα)
Anche l’agápe, così come l’eros, ha un suo contraltare, in un certo senso: il pragma. Il pragma è l’amore ostinato. Quello che ama per fedeltà a sé stessi, perché l’amare l’altra persona diventa parte della soggettività individuale. Si è quelli che si è per aver amato l’altro a lungo, appassionatamente, con tutti sé stessi. Anche se quell’amore non è più ricambiato, anche se a quell’amore ci si sta aggrappando al singolare.
Il pragma è l’amore che resiste, anche quando apparentemente non ha senso che resista. Magari perché l’altra persona non è più in grado di corrispondere o perché le circostanze sono cambiate. Il pragma è l’uncino che resta conficcato nell’anima, che può far male e che nondimeno fissa all’interiorità qualcosa di fondamentale. E cioè il ricordo e la consapevolezza di chi si è stati quando si era in due.
Mania (μανία)
Un amore finito, che sta finendo o che sta degenerando, però, non sempre si evolve necessariamente in pragma: talvolta si evolve, purtroppo, in mania. La mania è, in effetti, l’amore tossico prima che l’amore tossico come lessema fosse inventato. Con questa parola, infatti, s’intende lo spettro dell’amore, tutto ciò che l’amore non dovrebbe essere. È il volto deformato, consunto, sono gli occhi lucidi e spiritati che non si vorrebbero mai incontrare sul viso dell’altro. È l’amore che può vivere (o meglio, crede di poter vivere) soltanto attraverso il possesso completo ed esclusivo di ciò che brama. E quando questo invasamento, questa sorta di pazzia, si fa strada in un legame, ecco che inizia a prefigurarsi il disastro.
Philautía (φιλαυτία) e storgé (στοργή)
Contro la mania, del resto, i Greci prevedevano un certo numero di antidoti e di fattori protettivi. Non a caso, l’amore in greco antico passa anche per le parole che li nominano.
Il primo e più importante rimedio è senz’altro la philautía, ossia il giusto e doveroso amore di sé. La philautía consiste in quella spinta continua a comprendersi, a crescere, a migliorarsi e a conoscersi. A volersi bene nonostante i propri difetti, a sapere quel che si merita e quali sono i propri limiti. Si tratta di uno stare in relazione con sé stessi che protegge facendo scattare un campanello d’allarme quando la relazione si avvia a diventare tossica. La philautía è ciò che vieta di accettare ciò che non deve essere accettato. Ma anche ciò che ci evita di spingerci oltre quel che davvero siamo e vogliamo pur di non perdere l’altra persona.
Un secondo rimedio è lo storgé, l’amore tenero che si prova verso i genitori, i figli, i fratelli (di sangue e non). Quell’amore, insomma, che permette di ritrovare il proprio equilibrio attraverso lo sguardo benevolo di chi ci conosce e ci ama. Che sia la parola detta con discreta fermezza da un genitore. Lo sguardo preoccupato di un fratello o di una sorella. La domanda innocente di un figlio o di una figlia. In tutti questi casi, lo storgé è quell’amore che riporta la persona al di qual dell’abisso, aiutandola a vedere le cose nella giusta prospettiva. Potremmo dire che forse tra tutti gli amori questo è quello che più intensamente ci ricorda che non siamo solo nostri. Che siamo fatti di carne, ricordi e vissuti che appartengono anche ad altri, che siamo fatti di legami.
Philía (φιλία)
C’è poi un ulteriore rimedio alla mania, che fa parte a sé. L’amore in greco antico si dice anche philía, che è l’amicizia che contraddistingue gli amici veri.
Oggi questo termine si ritrova etimologicamente in tanti tipi di amore diversi rivolti a cose e attività, oltre che ad animali non umani. In origine, però, esso contraddistingueva quelle affinità elettive tra persone di valore che avevano attraversato insieme le difficoltà della vita. Era, per esempio, il sentimento che legava i compagni d’armi, ma anche la complicità che legava chi avesse condiviso un estremo pericolo.
Ora, dato che il contesto della philía è quello della prova (in battaglia o nella vita quotidiana), l’amico diventa anche il depositario dell’identità dell’altro. Un amico vero, secondo questa impostazione, è chi ha cura dell’altro, veglia su di lui. E gl’impone di non diventare mai una persona meno valida di quella che ha conosciuto.
Thélema (θέλημα)
Infine, l’amore in greco antico si dice thélema, che è l’amore per il proprio mestiere, per il lavoro ben fatto, portato a termine con maestria. Esso non riguarda le persone, ma le cose e le attività. Si tratta, cioè, di un certo modo di stare in rapporto con sé e il mondo in quanto agenti. Anche se, credo sia innegabile, c’è un fascino particolare, estremamente intrigante, in chi svolge il proprio lavoro con perizia e con passione. Certe volte uno sguardo intento, gesti sapienti, una dedizione al compito e agli altri nello svolgerlo, colpiscono molto di più dell’aspetto.
Valeria Meazza