Il romanzo La tregua di Primo Levi è il diario del viaggio verso la libertà che lo scrittore, internato nel campo di Auschwitz, compie dalla Polonia fino alla sua città, Torino.
La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945.
I cancelli di Auschwitz furono aperti. Con gli ultimi soldati nazisti che cercano di eliminare le prove del genocidio e con l’arrivo dei sovietici comincia il viaggio di salvezza dei sopravvissuti. Adesso per i prigionieri comincia un’ “ultima battaglia contro la fame, il gelo, la malattia.”
Si contano circa 800 prigionieri sopravvissuti nel campo, di questi, 500 moriranno i giorni successivi, altri 200 dopo l’arrivo dei soccorsi. Con il convoglio di Levi partirono in 640 e ne tornarono a casa solo tre.
Nella prima notte da uomo libero Levi non riesce a trovare sonno, è come se un argine fosse franato. È sopraffatto da un nuovo, sconosciuto dolore. La sofferenza adesso è morale, più che fisica.
Storia di un bambino senza nome
I malati vengono soccorsi. In questa fase di permanenza ad Auschwitz Primo Levi racconta la storia di un bambino di 3 anni nel gruppo dei prigionieri. Era un nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz, senza nome. Una donna lo aveva soprannominato Hurbinek. Il bisogno della parola premeva nel suo sguardo, ma la parola nessuno gliela aveva insegnata. Il bambino muore nei primi giorni del marzo del 45, di lui non resta nulla se non la testimonianza di Primo Levi. “Libero ma non redento”, così viene definito dall’autore.
L’intento di Levi non è di scrivere descrizioni lacrimevoli, ma di riportare la testimonianza dell’esistenza di una persona a cui nessuno ha nemmeno dato un nome.
Il viaggio verso la libertà
Comincia una lunghissima odissea, un viaggio pieno di imprevisti e incontri che dura ben 9 mesi. Il romanzo si configura infatti come una carrellata di ritratti di personaggi con storie diverse.
Primo Levi attraverserà gran parte dell’Europa orientale in un clima ancora ostico. La guerra, infatti, non è finita e su alcuni fronti, anche in Italia, si continua a combattere fino all’estate del ’45. Ora a piedi ora in treno si percorrono migliaia km, trovandosi ad affrontare
altre prove, altre fatiche, altre fami, altri geli, altre paure.
Al termine del libro troviamo stampata una cartina: la traccia concreta del tortuoso itinerario, che da Auschwitz arriva a Torino dopo aver attraversato una buona parte dell’Europa. Polonia, Unione Sovietica, Romania, Ungheria, Cecoslovacchia, Austria, Germania.
La parola chiave di questo viaggio verso la libertà è l’attesa. Di un pasto caldo, di un po’ di riposo, di riabbracciare i propri cari. L’attesa della salvezza. La tregua può essere intesa come un momento di speranza tra il perenne sconforto. Ma lo riconosce anche l’autore: è una speranza ingenua.
Guerra è sempre
I prigionieri non conoscono l’itinerario da percorrere. È un viaggio incredibile, popolato da personaggi multiformi e pittoreschi, tutti a modo loro segnati da una guerra non ancora davvero finita, e forse, come dice il Greco – uno degli uomini con cui Primo si ritroverà a legare i primi tempi –
Guerra è sempre.
I prigionieri liberati sono ora sradicati dal conflitto ma accomunati da un’ansia del contatto umano, dal bisogno di sentirsi vivi. Questo lungo periodo diventa una convalescenza, una tregua tra gli orrori di Auschwitz e il viaggio verso la libertà e la vita che attendeva ogni reduce al rientro in patria.
Il modus operandi è quello di chi alterna sconforto e capacità di vedere il buono. Levi infatti ha anche il tono di chi vive un’avventura e se non altro riconosce la sua capacità di cavarsela davanti alla sofferenza.
Dopo 5 mesi si trova ancora in Polonia. Finalmente nell’ultimo capitolo il gruppo raggiunge Monaco. Qui, un soldato tedesco, alla vista del numero tatuato su Primo, chiede perdono, inchinandosi.
L’ultima tappa è a Torino. Il 19 ottobre Primo Levi è a casa, e finalmente riabbraccia la mamma e la sorella. É la fine di un viaggio tormentato, ed ora Primo può cominciare la stesura della sua testimonianza. Ma nelle orecchie quella voce perentoria e tragicamente familiare che continua a chiamare all’appello gli ricorda che una parte di lui non sarà mai libera.
La Tregua è più un racconto visivo, di ciò che vede e dei luoghi, delle persone. Primo Levi non vuole ricavare leggi universali, ma trae insegnamenti sulla natura dell’uomo. Nel romanzo, però domina la parola, grave e dolorosa, che resta scritta a memoria perenne per il futuro, a indicare ciò che non deve mai più succedere.
I segni dell’offesa sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi vi ha assistito