Produzione, ad ogni costo. E’ questo l’imperativo che governa questi tempi, non a caso, difficili. Il Decreto Salva Ilva, varato dal governo lo scorso 28 dicembre, ne è l’ennesima dimostrazione. Il co-portavoce di Verdi-Sinistra Italiana Angelo Bonelli lo ha definito un “salvacondotto di Stato“; d’altra parte il decreto sancisce che, in caso di comprovata violazione di norme ambientali o sulla sicurezza del lavoro, a cui possa conseguire una sanzione interdittiva dell’attività dell’ente, il giudice: “in luogo dell’applicazione della sanzione, dispone la prosecuzione dell’attività dell’ente tramite un commissario”. Quanto siano ampi i poteri di questo “potestà” imprenditoriale non è ancora chiaro, mentre di certo rimangono solo le perplessità. A partire dalla costituzionalità della norma, il cui precedente con più analogie- il Decreto Salva Ilva emanato nel 2012- fu bocciato dalla Corte Costituzionale.
Decreto Salva Ilva, tutelare il lavoro o la salute pubblica?
Quella dell’Acciaieria Ilva è una partita difficile, che va avanti da più di dieci anni. Da una parte 20 mila posti di lavoro, senza i quali molte famiglie finirebbero sul lastrico, dall’altra il diritto alla salute degli stessi lavoratori e di un‘intera comunità, messo seriamente a repentaglio da questa attività industriale, come mostrano i dati sull’incidenza dei tumori nella città di Taranto.
Il governo Meloni ha scelto di far pendere l’ago della bilancia verso il lavoro, senza esitazioni. Con questo provvedimento, infatti, il giudice, dopo aver valutato la sussistenza di violazioni di norme ambientali o di sicurezza sul lavoro- cioè le leggi a difesa delle vittorie sindacali del passato, mai completamente al sicuro, e dei temi per cui si battaglia ancora oggi- viene esautorato dalla sua funzione di applicazione delle relative sanzioni. Al suo posto un commissario, di cui non si conoscono ancora i poteri discrezionali, predisporrà la prosecuzione dell’attività.
I precedenti: un passato che riaffiora
Certo, l’esecutivo in carica non ha cambiato rotta rispetto ai suoi predecessori (anzi…) ma, a differenza loro, avrebbe la fortuna di poter imparare dal passato.
Nell’ormai lontano 2012 l’allora ministro Corrado Clini varò un suo Decreto Salva Ilva, che per molti versi richiama quello emanato lo scorso 28 dicembre. Il risultato, però, non fu dei migliori: il provvedimento fu bocciato dalla Corte Costituzionale. Ma in quel caso l‘autorizzazione integrata ambientale, necessaria per certificare il rispetto, da parte dell’attività industriale, della normativa europea sull’inquinamento, doveva essere ottenuta entro il 2015. 3 anni di tempo, dunque, ritenuti sufficienti per bilanciare al meglio il diritto al lavoro e quello alla salute.
Ma ad oggi sono passati quasi11 anni dal primo sequestro dell’acciaieria, e nel frattempo ne è passata di acqua sotto i ponti: la CEDU ha condannato per due volte l’Italia per aver subordinato il diritto alla salute dei tarantini alla necessità di produrre acciaio; un rapporto dell’Onu ha definito Taranto “zona di sacrificio” ed ora sarà la Corte di Giustizia Europea a esprimersi sul caso, rimesso dal tribunale di Milano, in merito alla violazione della direttiva UE 2010 sull’inquinamento industriale.
Insomma, nonostante la continuità con cui le sentenze dei tribunali smentiscono l’altrettanto costante politica italiana sul caso Ilva, non sembra che il governo abbia intenzione di deviarne il corso. Resta da capire se si tratti di caparbietà o testardaggine (e quindi ottusità).
I punti oscuri e le reazioni al Decreto Salva Ilva
Come detto in precedenza, la prosecuzione dell’attività sarà garantita non solo in caso di violazione di norme ambientali, ma anche di norme inerenti la sicurezza sul lavoro. Evidentemente il passato continua ad essere scordato troppo in fretta.
Il 2 giugno 2015 morì nell’Altoforno 2 l’operaio Alessandro Moricella, e la magistratura sequestrò l’impianto, in quanto non sicuro per i lavoratori. A salvare, ancora una volta, l’acciaieria dalle sue colpe fu l’allora governo di Matteo Renzi che, tramite decreto, riabilitò l’azienda alla produzione. Peccato che, qualche tempo dopo, la consulta bocciò il provvedimento. Forse a Palazzo Chigi hanno la memoria corta.
Mentre Maurizio Rizzo Striano, legale dell’associazione Genitori Tarantini ETS , scrive che: “L’urgenza esiste ma in senso contrario, perché l’unica urgenza sarebbe quella di chiudere gli impianti che tuttora causano morte e malattia”, e la giornalista Rosy Battaglia, autrice dell’inchiesta “Taranto chiama”, commenta che il decreto: “riporta la città e la fabbrica a dieci anni fa, ponendosi contro tutte le sentenze della magistratura, a partire dalle condanne del processo Ambiente Svenduto”, nello stesso provvedimento si può leggere che esso non sarà applicabile solo al caso Ilva, ma a tutti gli impianti di “interesse strategico nazionale”.
Quali siano i criteri che definiscano un impianto come “di interesse strategico nazionale”, non è chiaro, e ciò non è certamente una buona notizia. Vedremo quali saranno i prossimi sviluppi e se anche questo decreto si infrangerà contro il muro giuridico della nostra Costituzione. Ad oggi il rischio più incombente sembra quello di un ritorno al passato, ma che non ha futuro.
Daniele Cristofani