Quanto impiegherà Shein, il titano della moda virtuale, a risollevarsi dopo il sisma che lo ha travolto ancora non lo sappiamo. Di certo, rispolverando un po’ la genesi della sua creazione, non dovrebbe incontrare macigni insormontabili.
Che l’ormai celeberrimo brand cinese Shein non rientri tra le 136 aziende più etiche al mondo – premio assegnato nel 2022 da Ethisphere Insitute – non ci stupisce, ma le accuse che pesano sulle spalle del colosso del fast fashion non sono affatto inezie.
La fisionomia del suo fondatore
Fresca di fregio dopo essere stata insignita del titolo di prima potenza economica mondiale, a detrimento degli Stati Uniti, storica medaglia d’oro, nell’ultimo decennio la repubblica di Xi Jinping non si è arrestata un solo istante. Dal 2020 ad oggi in Cina l’industria manifatturiera ha abbondantemente mantenuto lo scettro e nell’ultimo anno la produzione è aumentata del 9,8% rispetto all’anno precedente. È in questo clima tanto florido che Shein interra i suoi picchetti.
Il volto del colosso assume i lineamenti di Chris Xu. Laureato alla Washington University, Xu si specializza nell’ottimizzazione dei motori di ricerca e nel marketing digitale, fattori che hanno sancito la fortuna del marchio. Il successo della azienda, infatti, si deve, oltre ai prezzi super-economici, all’ineccepibile utilizzo dei social, soprattutto del giovanissimo TikTok. È su questa piattaforma che il marchio, grazie alla conoscenza degli algoritmi del virtuale di Chris, è riuscito a far breccia nel cuore e nelle tasche della generazione Z.
La nascita e l’ascesa di Shein
Fondata nel 2008 a Nanchino, in Cina, l’azienda dichiara di avere altre tre sedi in tutto il mondo: una a Nanjing e le altre due negli Stati Uniti e in Europa ma dove, di preciso, non ci è dato saperlo. Gli esperti di marketing la definiscono una azienda BTC (Business to Consumer), quindi di relazione diretta dal produttore al consumatore. L’intero processo produttivo, dall’ideazione del prototipo, alla prima cucitura, fino al piazzamento del capo sul mercato, si dipana in Cina. La fase di vendita, invece, avviene esclusivamente on-line. Senza alcun negozio fisico da gestire e vendendo esclusivamente sull’e-commerce, il gigante asiatico ha abbattuto considerevolmente i costi di produzione.
A soli dieci anni dalla sua creazione, Shein spicca definitivamente il volo. È il 2018 ad essere considerato l’anno d’oro dell’azienda. È bastato sfogliare un solo calendario per assistere al raddoppio delle vendite, schizzate ai vertici nel 2020. L’isolamento provocato dalla pandemia ha incentivato in maniera esorbitante gli acquisti on-line, regalando al leviatano cinese un aumento del 250%. Nel ricambio di qualche ciclo stagionale, Shein, ha sbaragliato l’intera concorrenza, toccando l’esorbitante cifra di 10 miliardi di dollari di valutazione.
La lungimiranza dell’investimento digitale
Come in ogni grande battaglia, la vittoria dipende in grandissima parte dalla strategia deliberata dal leader. Chris Xu, che alla nascita del marchio Shein non aveva alle spalle alcuna esperienza nel campo della moda né della vendita, ha applicato all’azienda ciò che sapeva fare meglio: marketing digitale. Grazie alla capacità di utilizzare un software che si serve dell’intelligenza artificiale, attraverso lo studio dei big data, il marchio è in grado addirittura di anticipare le tendenze. Il brand riesce, infatti, a captare gli interessi del target al quale si rivolge, perlopiù adolescenziale, soprattutto grazie agli algoritmi del virtuale, universo ormai sovrappopolato dalle giovani generazioni.
Lo scambio intangibile però non è, per il momento e fortunatamente, bastevole. Il marchio, infatti, organizza periodicamente eventi di grande eco internazionale, come ha fatto durante l’ultima Paris Fashion Week, presentando giovani designer. O, ancora, aprendo store temporanei nelle grandi capitali. Questo umanizza e dona palpabilità a una azienda che, altrimenti, rischierebbe di restare esclusivamente nei meandri dell’internet.
Il lato oscuro del successo di Shein
Tra i bagliori di Shein che, ormai, come abbiamo capito, brilla di luce propria, si nascondono, però, retroscena agghiaccianti. La colata di nero è scivolata sul colosso cinese in seguito a una inchiesta ripresa dalle telecamere di Channel 4. Nel reportage, intitolato Shein Untold: inside the Shein Machine, si scopre che i dipendenti del mastodontico meccanismo produttivo ricevono 4 centesimi a capo, creandone più di 500 al giorno.
Che la cultura asiatica sia intrisa di una dedizione lavorativa particolarmente importante è noto a tutti, ma ai dipendenti di Shein viene chiesto un impegno di ben 18 ore al giorno. L’unica giornata feriale concessa si guadagna una volta al mese e di pause lavorative neppure a parlarne. Ma la retribuzione è almeno adeguata allo sforzo sovraumano desiderato? La video-inchiesta rivela che lo stipendio mensile non supera i 4 mila yuan, che altro non sono che il corrispettivo di 550 euro, dei quali ne vengono trattenuti i 2/3 per ogni errore commesso. Insomma, non ci pare che Shein sia meritevole di ricevere il premio di Best Workplace.
Critiche sopraggiunte anche dalle realtà ambientaliste
Diverse denunce sono state indirizzate al sovrano del fast-fashion anche dalle frange ambientaliste. Primo fra tutti, la delegazione tedesca di Greenpeace. L’Organizzazione non governativa ha avviato un’analisi della composizione dei prodotti marchiati Shein, dalla quale sono emersi dettagli allarmanti. Su 47 prodotti sottoposti ad indagine, il 15 % di questi contiene sostanze chimiche pericolose, superando nettamente i limiti normativi imposti dall’UE.
Osservandoli al microscopio, 5 dei prodotti messi alla gogna, hanno superato i limiti di concentrazione chimica di oltre il 100%, mentre altri 7 contenevano un alto numero di ftalati. A vincere il premio di peggior prodotto, gli apparentemente innocui stivali neri invernali, contenenti una quota di ftalati 689 volte superiore a quello consentito. Sostanze tossiche e cancerogene, pericolose non solo per l’ambiente ma anche, chiaramente, per chi le maneggia, dal produttore al consumatore.
Come risponde il colosso alle accuse?
Capi d’imputazione gravosi aleggiano sull’erculea impresa, che vanno dallo sfruttamento dei lavoratori all’utilizzo di materiali tossici. Più nello specifico, Shein è accusata di spremere oltre i limiti legali i propri dipendenti, di costringerli a lavorare in luoghi insalubri, privi di ogni normativa di sicurezza e di utilizzare, per giunta, pochissimi materiali eco-compatibili. L’impresa asiatica si difende rigirando le accuse ai fornitori dei prodotti incriminati, mentre i senior dell’azienda assicurano di avere a cura la salute dei dipendenti.
Dati alla mano, però, non ci sono prove che suffraghino le dichiarazioni. In nessuna analisi postuma alle succitate accuse risulta che il colosso abbia avviato iniziative per ridurre o eliminare le sostanze tossiche adoperate, né le emissioni di carbonio e altri gas serra prodotte nei propri stabilimenti. Sarebbe forse il caso che Shein dia qualche prova rappresentativa della propria innocenza, ricordando che il target al quale mira è la generazione più attenta all’impatto ambientale che la storia dell’umanità abbia conosciuto.
Martina Falvo