Nel 1991 venne pubblicata, postuma, una raccolta di saggi dello scrittore Italo Calvino, sussunta sotto il titolo Perché leggere i classici. Tra le tante riflessioni raccolte in quest’opera, figura centrale – e ne fa da perno – l’assunto secondo cui classico, per definizione, sia tutto ciò che non finisce mai di parlarci. Sono tali, dunque – secondo lo scrittore – tutte quelle opere che serbano incessantemente spunti, tracciati, prospettive. Dalla prima alle successive – e mai definitive – letture. In tal senso riluce di tutt’altro spettro semantico-esistenziale il termine-concetto ripetizione. Che non si riduce al perimetro di una mera iterazione dell’uguale, ma si configura come una costante occasione di rinnovamento. Sulla scorta di ciò, dunque, risulta interessante ritornare sull’assunto posto da Calvino. Attraversarlo sempre, ancora, di nuovo, si profila come un’occasione di ritorno rinnovato su una questione fondamentale. Da qui, allora, la riproposizione della domanda: perché i classici?
Perché i classici sono classici? Quando è possibile definirli tali? Quali criteri, variabili, fattori concorrono a fare di un’opera un classico? E, ancora: si tratta di una valutazione deliberata, di un giudizio di valore oggettivizzante, di una riflessione di e per addetti ai lavori? Qualcuno di particolarmente autorevole è deputato a stabilire quando un’opera sia meritevole di essere definita un classico? E, conseguentemente, di continuare ad essere letta, analizzata, elaborata?
Gli anni trascorrono, sempre uguali e sempre diversi. E con essi, scorre anche l’esistenza umana con i suoi spunti, appunti, tracciati, cenni, mutamenti. Qualcosa cambia, qualcosa rimane. Permane ciò che permane in ciò che muta. Muta ciò che muta in ciò che permane. Mutamento e stasi: non si dà l’uno senza l’altra. Mutano i fondi, gli sfondi, i paradigmi. Ma anche nei casi di nette e decise sterzate rivoluzionarie, qualcosa del passato ce la si porta dietro – che sia in senso conservativo, reattivo, repulsivo. D’altronde è l’etimologia dello stesso termine rivoluzione, a suggerirlo: volgere indietro, ritornare. Ripetersi, in maniera sempre diversa, e tornare rinnovati.
LA SOPRAVVIVENZA DEI CLASSICI: CONDIZIONI NECESSARIE E SUFFICIENTI
Accostarsi a ciò che si nomina costituisce già un’originaria soglia conoscitiva. Cambiano gli scenari, dunque, ma qualcosa resta. E caso icastico di ciò che si ripresenta – continuandoci a parlare nonostante gli scenari che mutano – sono, appunto, i classici. A questo punto, bisognerebbe chiedersi se l’imperitura gittata di queste opere costantemente parlanti dipenda solo ed esclusivamente dalle elaborazioni culturali che, di volta in volta, se ne prendono carico o anche da altro. In altre parole: basta il semplice – che tanto semplice non è – tentativo di mantenere viva una tradizione affinché questa, effettivamente, permanga? Si badi bene: si parla di tentativi e ciò già connota in un certo senso l’azione alla quale si fa riferimento.
Tutti i possibili sforzi compiuti da una generazione – pur convincenti che siano – da soli bastano a far sì che una certa tradizione si perpetui? La questione è dubbia. Né sono sufficienti a giustificare il fatto che – allo scorrere di anni, secoli, millenni – certe opere continuano a serbare una sconcertante, forse anche consolatoria, attualità. È una condizione necessaria – se nessuno ne parlasse, le opere cadrebbero in un polveroso dimenticatoio – ma non sufficiente. E non lo è, perché è necessario che siano le opere stesse a continuare a parlarci. E, non esaurendo mai ciò che hanno da dirci, continuano a imporsi nel tempo. Così da diventare classici.
ARTAUD E IL DRAMMA ESSENZIALE
Ma cosa non finiscono mai di dirci? Un’indicazione di fondamentale importanza, ci arriva dalla speculazione del drammaturgo, saggista e regista teatrale francese Antonin Artaud. In particolare, dal saggio Il teatro e il suo doppio con altri scritti teatrali, in cui l’artista in questione si riferisce al concetto di teatro primitivo in questi termini:
Se […] si pone il problema delle origini e della ragion d’essere (o della necessità) del teatro, troviamo da un lato e sul piano metafisico la materializzazione, o piuttosto l’esteriorizzazione, di una sorta di dramma essenziale che contiene, in forma insieme molteplice e unitaria, i principi essenziali di ogni dramma, già orientati e divisi, non tanto da perdere il loro carattere di principi, ma quanto basta per contenere in modo sostanziale e attivo, cioè pieno di risonanze, infinite prospettive di conflitto […], la sotterranea minaccia di un caos decisivo quanto pericoloso.
Cosa accade, dunque, in ciò che Artaud definisce dramma originario? Vengono elaborati, agiti, ripetuti – ricordiamo l’origine etimologica della parola greca drama: azione – principi essenziali già orientati e divisi. Orientati e divisi perché accadono, di volta in volta, in un mondo che è così e non in altro modo. In altre parole, ciò che è rappresentato in una certa cornice di mondo accade in quella stessa definita e particolare cornice, dotata di una peculiare scala di valori, idee, prospettive.
Quindi, in un certo senso, si tratta di principi essenziali che subiscono la curvatura del tempo e dello spazio in cui si estrinsecano nel dramma. Ma, in quanto principi essenziali, serbano anche la possibilità di fornire, ancora e sempre, «infinite prospettive di conflitto». Dischiudono, in altri termini, indefinite regioni di possibilità. Indeterminate – nel senso che sono passibili di sempre e ancora nuove determinazioni in ciò che è determinato – occasioni di ridefinizione, ri-semantizzazione, ri-collocazione.
DA ITALO CALVINO A UMBERTO ECO: IL GIOCO DISINTERESSATO DEI CLASSICI
E si arriva ad uno snodo fondamentale, alla presa in carico di una questione che ha fatto costantemente da sfondo, negli ultimi dibattiti sulla questione. A cosa servono i classici? Sosteneva Umberto Eco, nel corso di una conferenza diventata topica:
Una volta l’editore Valentino Bompiani aveva detto “un uomo che legge vale due”. Preso nel modo più facile, si può intendere che chi legge è più colto e, quindi, sapendo più cose avrà più successo. Ma non è questo. Sappiamo benissimo, anzi, talora ha immenso successo chi non ha mai letto niente e di uomini ne vale mezzo. Non è per il successo che bisogna leggere.
La riflessione di Umberto Eco si ricollega ad un Leitmotiv della questione in oggetto, riassumibile nell’interrogativo: a cosa servono i classici? Non sono pochi gli studiosi che sostengono che i classici siano tali proprio perché, non disponendosi in subordine ad alcuna istanza di ordine superiore, non servono a nulla di strumentale. In altre parole, in quanto non-servitori, si adagiano sulla soglia della libertà e, in un gioco disinteressato, della libertà si fanno veicolo.
RIPETIZIONE E RINNOVAMENTO DELLE PRATICHE CONOSCITIVE
In che modo, allora, le pratiche di conoscenza restituiscono il loro ininterrotto ed asintotico parlare all’uomo? A tal proposito, risulta particolarmente interessante il contributo sul tema della filosofa Florinda Cambria. Che, nel saggio Le arti dinamiche: all’origine dell’azione conoscitiva, soffermandosi sul nucleo teoretico-prassico che sta a fondamento delle pratiche artistico-conoscitive, scrive:
Si tratta […] di un sapere che […] si tramanda solo facendone qualcosa. Se sai che muori, e lo sai, che cosa fai di questo sapere? Ecco la domanda centrale che abita nelle arti dinamiche e a cui esse, nelle loro diverse espressioni, cercano di corrispondere. Ogni rito, in questo senso, è un tentativo di mostrare “come fare” a essere umani, cioè di ricordarsi di diventarlo sempre di nuovo. Questione eminentemente etica, che sta al cuore di ogni arte dinamica: come fare, come agire la propria sapiente umanità.
Ecco il punto della questione. Un punto fermo ma mai definitivo che, nel suo farsi – che è, ad un tempo, essere e divenire – risponde alla domanda «perché i classici?». E perché i classici non smettono mai di parlarci, come sosteneva Calvino? E, ancora, in che modo? La teoria – etimologicamente, il vedere – che si fa azione, dramma, prassi. E che non si risolve, dunque, in una dimensione astratta con sporadiche e casuali ripercussioni su ciò che si considera la realtà dei fatti. Ma, al contrario, una pratica di conoscenza che riconosce come suo apice, culmine, coronamento originario e prospettico il ritorno sulla prassi. Ciò che Florinda Cambria definisce, appunto, «sapiente umanità» e che si traduce nel fare qualcosa del sapere. Che in termini profondi, primi e ultimi, significa, appunto, abitare l’ininterrotto ed asintotico interrogativo sul “come fare” ad essere umani.
CLASSICI E ARTE: IL RECIPROCO TRASFORMARSI DI SOGGETTO ED OGGETTO
Il fatto, poi, è che non solo i classici – per una congerie di pulsanti motivazioni che soverchiano il perimetro di queste modeste parole – non finiscono mai di parlarci. E che, per questo, rendono ogni nuova lettura una rilettura. Ma, andando oltre, e proseguendo sulla scia inaugurata da Calvino, «anch’essi cambiano, nella luce d’una prospettiva storica mutata». Tornano in gioco, qui, i concetti di ripetizione e rinnovamento. Dove per ripetizione non si intende il mero ritorno dell’uguale sull’uguale, ma il ritorno più originario sul precedente livello del già-conosciuto. Si tratta del costante gioco di definizione e ridefinizione, bordatura e dissolvenza, chiusura e apertura, che compone la trama della ricerca umana. Dove a mutare non sono solo gli uomini, ma anche le opere con le quali ci si confronta. In un processo ben delineato dal filosofo Massimo Donà nell’opera Arte, tragedia, tecnica:
l’azione produttiva artistica è, in questo senso davvero rivelativa – in essa a mostrarsi è infatti l’esperienza stessa nella sua verità. Quella secondo cui ogni soggetto è originariamente trasformato dall’oggetto suo proprio, allo stesso modo in cui ogni oggetto è originariamente trasformato dal soggetto per il quale si costituisce appunto come oggetto.
Sta, dunque, all’uomo abitarne gli spunti, i cenni, le indicazioni sgorganti dai classici nella complessa, intricata e difficile nebulosa che è l’esistenza. Almeno fino a quando, ogni classico avrà ancora qualcosa da dirci.
Mattia Spanò