Teheran, Iran. Jîna “Mahsa” Amini è stata ammazzata brutalmente dalla polizia “morale” all’età di 22 anni a metà settembre scorso. Il reato che ha commesso è quello di aver lasciato che ciocche dei suoi capelli fuoriuscissero dal velo, a incorniciarle il viso. I tentativi del governo iraniano di nascondere la notizia si sono vanificati di fronte alla rabbia di un popolo, di una comunità.
Donne, giovani donne iraniane, sono scese in piazza. È la rivolta. Da Rojhilat, regione curda, le grida si sono diffuse sino a Teheran e in altre parti dell’Iran. Il coro curdo è uno e ormai risuona anche nei cuori occidentali, grazie al potere mediatico dei social:
“Jin, Jîyan, Azadî” – “Donne, Vita, Libertà”.
Ebbene, il nome della giovane donna curda significa proprio “Vita” (“Jîyan”), parola che in curdo condivide l’etimologia di “Donna” (“Jin”). Per quanto lo stato iraniano cerchi di nascondere le identità curde, reprimendone i nomi di battesimo, una cosa non può nascondere: le agghiaccianti verità che il linguaggio ci rivela.
Forse è proprio per questa verità che le rivolte femminili hanno sempre incusso timore: la capacità del corpo femminile di generare vita. Questa forza naturale che i corpi delle donne racchiudono, nel loro ventre, spaventa tanto il genere maschile, da volerne avere il controllo. Questa paura ha da sempre caratterizzato il rapporto uomo-donna, o meglio, la narrazione del quale, il maschile, ne ha voluto dar conto. E proprio nella logica del binomio servo-padrone, di hegeliana memoria, in cui il soggiogamento è dall’una, ma anche dall’altra parte, la coscienza delle donne si rivela. Le donne, emancipate, da sempre poi, sono indipendenti dal padrone, laddove l’uomo continua a dipendere nel rapporto dialettico dalla donna, prima come madre, poi come compagna. Fonte di vita, di cura.
A interrompere il sonno in questa sicura culla di dipendenza, è il grido all’autocoscienza, il grido alla propria libertà, al proprio benessere, il grido alla cura verso se stesse e non più verso il maschile. A spaventare è, dunque, che quell’amore, così radicale nel rapporto con l’uomo, cambi soggetto, che la donna inizi ad amare, con le medesime attenzioni, se stessa, in piena autonomia.
“E poiché le donne portano nella rivolta la loro radicalità, si può dire che un governo può ancora sperare di cavarsela quando in piazza ci sono solo gli uomini, ma quando da casa escono in massa anche le donne, per quel governo è finita” – Rossana Rossandra, “Le Altre”, Manifestolibri, 2021
I capelli devono essere nascosti, così come la possibilità di amarsi non deve essere mostrata in pubblico, la possibilità di prendersi cura di se stesse va tenuta nel privato. L’obbligo di compiere questa scelta, mostra quanto quella possibilità venga recepita come pericolosa. La possibilità che le donne si amino in autonomia, che si curino di sé, prima che di un “padrone”, senza doverlo nascondere è così terrificante, da metterla all’oscuro.
Ecco che i capelli, parte del corpo di ognuna, di cui ci prendiamo cura per poter esprimere la nostra identità, si svelano. Le giovani donne iraniane si mostrano per quello che sono. Stracciano il velo di Maya che hanno dovuto indossare dal momento in cui sono diventate donne, dal momento in cui sono diventate desiderabili.
La rabbia, il tumulto, la volontà di affermazione del proprio Io sono forti. Le donne iraniane (e le compagne occidentali, a loro vicine nella lotta, sui social) compiono un atto politicamente ancora più forte nella rivolta. In nome della propria libertà, in nome della vita, in nome di Jîna, tagliano con le forbici i loro capelli. Le donne sono disposte a recidere parte della loro bellezza, del loro amore per se stesse, da sé. Quella bellezza che il governo ha oppresso per anni, loro la lasciano cadere al suolo. Come semi nel terreno, i capelli sono radici per la loro libertà di essere.
“Jin, Jîyan, Azadî”.