Da tempo immemore l’uomo ripercorre il passato per agire il presente ed affacciarsi sull’avvenire. La storia è un bagaglio, una fenditura, un’occasione di riavvolgere il nastro dell’umano. Una rete di moventi, modi, scelte, ragioni che – meravigliosa e terribile – si scompagina come costante ed asintotica fonte di disvelamento. In una temperie così intricata e, in parte, sconvolgente come l’attuale occorre ravvivare il portato sgorgante dalla prospettiva storica.
Nella Poetica, Aristotele traccia una netta distinzione tra poesia e storia. Secondo lo Stagirita la differenza fondamentale tra lo storico ed il poeta non risiede nella specifica forma espressiva adoperata – la prosa dal primo, la composizione in versi dal secondo. Sarebbe, infatti, possibile – continua Aristotele – rendere in versi le storie di Erodoto, ma rimarrebbero comunque fatti narrati dalla prospettiva storica. Al contrario, secondo lo Stagirita, la distinzione fondamentale tra poesia e storia consiste nei contenuti trattati. In ciò che si racconta. Storici e poeti:
Differiscono in quanto uno dice le cose accadute e l’altro quelle che potrebbero accadere.
Di conseguenza, se diversa è la sostanza elaborata, differenti saranno anche i compiti delle due discipline:
Compito del poeta non è dire ciò che è avvenuto ma ciò che potrebbe avvenire, vale a dire ciò che è possibile secondo verosimiglianza e necessità.
A ciò segue un’ulteriore riflessione di Aristotele:
Per questo motivo la poesia è più filosofica e più seria della storia, perché la poesia si occupa piuttosto dell’universale, mentre la storia racconta i particolari. Appartiene all’universale il fatto che a qualcuno capiti di dire o di fare certe cose secondo verosimiglianza o necessità, e a questo mira la poesia, aggiungendo successivamente i nomi; appartiene invece al particolare dire cosa ha fatto o cosa è capitato ad Alcibiade.
LA PROSPETTIVA ARISTOTELICA
Lo Stagirita, a questo punto, ha aggiunto un altro elemento alla sua argomentazione. La poesia si volge all’universale, il dire o il fare certe cose secondo verosimiglianza o necessità che capita ad un soggetto, al quale solo successivamente si aggiunge il nome. In altre parole: strutturata una trama, è compito del poeta attribuire i nomi ai protagonisti dell’opera, depositari di un agire universale. Ma – continua Aristotele – mentre nella commedia, i poeti comici aggiungono nomi casuali, nella tragedia, gli autori si attengono a nomi già esistenti. La scelta di questi ultimi è dettata dal fatto che:
il possibile è già di per sé credibile; di ciò che non è avvenuto noi non abbiamo ancora fiducia che sia possibile, mentre di ciò che è avvenuto è sempre chiaro che era possibile: se non fosse stato possibile non sarebbe avvenuto.
Posti questi punti, occorre sostare debitamente sulla matassa aristotelica fin qui presentata. Inizialmente lo stagirita ha tracciato una netta distinzione tra poesia e storia, fondata sulla differenza tra i contenuti trattati dalle due discipline. La produzione poetica si occupa di ciò che può sempre accadere, la prospettiva storica racconta ciò che è accaduto. La prima si rivolge, dunque, all’universale; la seconda traccia i contorni del particolare.
Ma ad un certo punto, accade uno strappo rivelatorio. Abitando il quale si può tentare di rispondere ad un interrogativo: a quale storia si riferisce Aristotele quando, sulla scorta dell’argomentazione appena ripercorsa, sostiene che la produzione poetica sia più filosofica e seria della prospettiva storica? E lo strappo accade esattamente quando lo Stagirita stabilisce come il poeta strutturerebbe le proprie opere universali: stabilita una trama, l’autore attribuisce i nomi. Del tutto casuali nel caso della commedia, già esistenti nel caso della tragedia. Già esistenti e, dunque, già accaduti. In altre parole, già storicamente determinati. La scelta dell’autore tragico deriverebbe dal fatto che ciò che è accaduto può sempre accadere, appunto perché è già accaduto.
SPUNTI ARISTOTELICI
Fermiamoci un attimo. Adesso sembra che nelle parole di chi aveva sostenuto una netta distinzione tra poesia e storia – sostenendo il primato della prima sulla seconda – si possa scorgere un’intersezione tra produzione poetica e prospettiva storica. A questo punto torna, pressante, l’interrogativo: a quale storia si riferisce Aristotele quando sostiene che la produzione poetica sia più filosofica e seria della prospettiva storica? Probabilmente ad una storia fotografica, cronologica, cronachistica, statica. A quel racconto storico che si riduce alla mera descrizione di una sequela additiva di fatti, senza andare oltre. Al dire, appunto, «cosa ha fatto o cosa è capitato ad Alcibiade».
Non si spiegherebbe, altrimenti, perché lo Stagirita faccia, poi, riferimento alla fondamentale importanza di ciò che è già accaduto – e, dunque, storicamente determinato – nella stesura delle tragedie. Perché ciò che è già avvenuto storicamente può sempre, potenzialmente, realizzarsi di nuovo. È, appunto, possibile. Si può, allora, scorgere nella trama di una storia che eccede di gran lunga la semplice enumerazione particolare di fatti, una ben più gittata.
Sembra di poter, dunque, sostenere che i limiti che Aristotele rinviene nella prospettiva storica non si configurino come una critica alla storia tout court, inferiore per caratura filosofica e serietà alla poesia. Ma investano solo una certa modalità di ricerca storica: quell’attività volta solo ed esclusivamente a presentare – come si diceva – un’istantanea dettagliata dei fatti accaduti, senza oltrepassare il particolare.
DA ARISTOTELE A GÜNTHER ANDERS
A ben vedere, anche ciò che è già accaduto – oggetto della storia, secondo Aristotele – serba in sé la possibilità che riaccada. Andando oltre gli intenti e la speculazione aristotelica si può, dunque, sostenere che la storia sia il tracciato dettagliato del particolare, il racconto di ciò che è già accaduto, nel cui svolgimento baluginano tracce di universale, spunti di ciò che potrebbe sempre-di-nuovo accadere. E che la storia si configuri, dunque, come asintotica ed ininterrotta ricerca sull’umano.
Si tratta di una prospettiva non lontana da quanto il filosofo Günther Anders sostiene nell’opera Noi figli di Eichmann. E che, seppur con le dovute distinzioni, risuona ancora oggi nella sua meravigliosa ed atroce attualità. Noi figli di Eichmann è una toccante lettera aperta che Anders indirizza a Klaus Eichmann, figlio del funzionario e criminale di guerra tedesco Adolf Eichmann – uno dei principali responsabili dell’eccidio degli ebrei avvenuto nella Germania nazista. Nell’opera, Anders, sottolinea l’importanza della rimemorazione di ciò che è accaduto, della prospettiva storica:
L’offuscamento in cui precipitiamo mediante il riammemoramento può servire a qualcosa soltanto se impariamo ad usarlo e a trasformarlo in qualche altra cosa. Dobbiamo trasformarlo innanzitutto nella consapevolezza che ciò che ieri è veramente accaduto può accadere ancora e di nuovo anche oggi fino a che non ne avremo cambiato fondamentalmente i presupposti. Insomma nella consapevolezza che il tempo del mostruoso forse non è stato un puro interregno. E secondariamente dobbiamo trasformarlo nella decisione di combattere queste possibili ripetizioni.
LA PROSPETTIVA STORICA
Anders, in questo caso, si riferisce alle atroci azioni compiute dai nazisti tedeschi nei confronti dei deportati durante la Seconda guerra mondiale. E, in questo quadro, sottolinea la fondamentale importanza del riavvolgere il passato per agire il presente e volgersi al futuro. Emerge il valore elaborativo del lavoro storico che si configura, quindi, come un’occasione di consapevolezza. Una possibilità di arricchimento a partire dalla quale parametrare l’impronta, l’orientamento, l’indirizzo da imprimere presente. Nel caso dell’eccidio nazista, sul quale si sofferma Anders: guardare in faccia la mostruosità di ciò che è già accaduto perché può sempre, di nuovo, accadere. E sulla scia di ciò, modificarne alla radice i presupposti affinché simili nefandezze – per riferirsi alle quali, continua il filosofo, «mancano le parole non solo a me, ma alla lingua stessa» – non si ripetano.
Il mostruoso, come il meraviglioso, appartiene all’umano. La storia, ciò che è accaduto, ce lo racconta. E ci rivela anche che potrebbe sempre accadere. Funge da monito e da bussola, da spia, sentore, banco di prova. In senso decostruttivo e costruttivo. Da qui la fondamentale importanza della prospettiva storica, che si configura come un’ininterrotta ed asintotica sorgente di disvelamento dell’esistere umano. In una cornice così intricata come l’attuale, siamo chiamati ad abitare i profondi cenni sull’umano che la storia emana.
Mattia Spanò