Per sua natura disumano e umanizzante al tempo stesso, il ciclismo è scuola di vita. Forse contro ogni logica, infatti, la fatica e la sofferenza che la pratica ciclistica comporta esaltano le migliori doti umane degli atleti che praticano questo sport.
Ogni sport, tra pregi e difetti, è un microcosmo tutto da scoprire per chi intende avvicinarvisi. Con le proprie imprese, gli atleti di ogni sport – dotati di qualità che talvolta sembrano rasentare il sovrumano – ci regalano emozioni spesso indescrivibili. Regalano spettacolo, perché è di questo che lo sport vive. E il ciclismo non fa certo eccezione. Proprio domenica scorsa si è concluso infatti quello che addetti ai lavori e appassionati hanno definito il Tour de France più spettacolare degli ultimi anni.
Ma quali sono i valori che caratterizzano, nello specifico, il ciclismo – quei valori che gli sono valsi, da sempre, il titolo di “scuola di vita”? Un’immagine emblematica ce l’ha offerta il Tour giusto qualche giorno fa. Un’immagine che passerà alla storia di questo sport. Una storia costellata di gesti come questo, perché questi gesti sono l’essenza del ciclismo.
È la diciottesima frazione del Tour, l’ultima tappa di montagna. Chi se ne intede sa che siamo alla resa dei conti. Il bis-campione uscente Tadej Pogačar è secondo in classifica generale e ha forse l’ultima occasione di ribaltare l’esito della corsa. Per riuscirci, deve recuperare il terreno perso dal leader della classifica, Jonas Vingegård – che deve invece, a sua volta, difendersi dai suoi attacchi. E Pogačar lo attacca, più e più volte, ma Vingegård non cede. Nel vivo della corsa, Pogačar sbaglia l’impostazione di una curva in discesa e cade. L’istinto del corridore, lo porta a rialzarsi immediatamente e, seppur sanguinante, a riprende la corsa. Una corsa ora all’inseguimento di un rivale che, però, decide di non approfittare della sventura del temibilissimo avversario.
Forse contro ogni logica sportiva, infatti, Vingegård rallenta e aspetta il collega. Il collega, una volta rientrato, dimentica per un momento di essere in gara e gli prende la mano per ringraziarlo.
La resurrezione del ciclismo pulito
Lo stesso ciclismo che tradizionalmente si è fatto interprete di splendidi gesti di umanità e sportività come quelli appena descritti è stato però, in passato, travolto e ferito dalla vergognosa aberrazione del doping. Sì, il ciclismo ha vissuto anni bui. Un ventennio in cui l’opprimente ombra del doping è riuscita a oscurarne la bellezza e a comprometterne la credibilità perfino agli occhi degli appassionati.
Eppure, il doping non è altro che un’aberrazione che niente ha a che vedere con l’essenza dello sport. Dopo un lungo assedio, infatti, il ciclismo nella sua vera essenza ha reagito e ha vinto e, ad oggi, è tra gli sport che registrano il minor numero di positività al doping, pur essendo, da ormai diversi anni, tra i più controllati. Consapevole dei propri errori, al fine di salvaguardare la propria bellezza e riguadagnare la credibilità perduta, il ciclismo è ripartito dai propri valori fondanti: sacrificio e integrità.
Se, quindi, nel ciclismo attuale non c’è più spazio (né tolleranza) per il doping, nel vero ciclismo – di qualsiasi epoca – non ce n’è mai stato. Perché l’ossessione della “vittoria a tutti i costi”, che spinge gli atleti a pratiche illecite, non fa parte della mentalità del vero corridore e il gesto di Vingegård ce lo dimostra. Vingegård ha scelto di favorire l’avversario pur di non dover imputare la propria eventuale vittoria alla sfortuna del rivale. Pur di non dover nemmeno avere il dubbio di non essersi guadagnato la vittoria (poi effettivamente ottenuta) solo con la forza delle proprie gambe. Che cosa, più di questa immagine, può dimostrarci che per un vero corridore il fine, la vittoria, non giustifica mai i mezzi? E non solo i mezzi illeciti, ma anche quelli che, da un punto di vista agonistico, sarebbero perfettamente accettabili e sicuramente non punibili.
Sportività e fair play
C’è chi in determinate situazioni decide di sospendere l’agonismo e chi sostiene che “la gara è gara”, sempre, in qualsiasi circostanza. Due correnti di pensiero opposte su cui gli appassionati, ma anche i corridori stessi, spesso si interrogano e scontrano. Non c’è giusto o sbagliato, perché in nessuno dei due casi viene commessa alcuna scorrettezza.
Tuttavia, da sempre il ciclismo vive e si nutre di questi gesti assurdamente illogici e incredibilmente umani. Gesti che rimangono impressi nella memoria di chi vi assiste e vengono tramandati di padre in figlio, o, nel mio caso, di padre in figlia. Sono passati settant’anni, eppure credo che qualsiasi appassionato sappia di quella famosa borraccia d’acqua sul Col du Galibier. Quella borraccia che, nonostante la rivalità sportiva, si passarono due dei più grandi avversari della storia del ciclismo: Gino Bartali e Fausto Coppi. Qualcuno dirà poi che era stata un’idea del fotografo e, sì, magari in quell’occasione andò veramente così. Chi segue le corse però sa che, anche a telecamere spente, episodi simili sono all’ordine del giorno.
Non definirei, tuttavia, questi comportamenti come esempi di fair play. Fair play è il gioco leale e coretto, il quale, se non messo in pratica, determina una scorrettezza e quindi una sanzione. Ma nessun regolamento punirebbe mai un corridore che non ha aspettato l’avversario caduto. In questi casi si tratta è integrità morale, rispetto, umanità. È qualcosa che va ben oltre il semplice fair play. Si tratta di compromettere le proprie possibilità di vittoria in nome di qualcosa che si ritiene più importante della gara stessa: i propri valori.
L’eroismo sportivo
Nei decenni, l’eterno “gruppo” del ciclismo è stato onorato della presenza al suo interno di veri e propri eroi. Uno su tutti, Gino Bartali, insignito del riconoscimento di “Giusto tra le Nazioni” per aver contribuito a salvare ottocento vite durante la seconda guerra mondiale. Ma Bartali, prima ancora di essere uno dei più grandi campioni di ciclismo, era un grande uomo ed è questo che l’ha reso un eroe dell’umanità.
Anche nel “piccolo” delle corse ciclistiche, però, assistiamo quotidianamente a gesta che, benché a livello puramente sportivo, hanno dell’eroico.
Il ciclismo è uno sport brutale. Prendiamo il Tour de France appena concluso: 3349,8 chilometri totali per 58.530 metri di dislivello distribuiti su ventuno tappe consecutive interrotte da soli due giorni di riposo. Per il vincitore, più di 79 ore di corsa, buona parte delle quali sotto il sole cocente, con temperature fino ai 40 gradi. Certo, correre in bici è un mestiere – e, tra l’altro, un mestiere per pochi – ma le condizioni in cui spesso i professionisti si trovano a correre, tra ferite, fratture, malesseri e sofferenze di vario genere, fanno sì che ogni risultato raggiunto costituisca una vera impresa.
Stoicismo, determinazione, sopportazione del dolore… Il corridore sa che nessun risultato degno di essere raggiunto arriva senza fare fatica. E, a volte, nonostante tutti gli sforzi profusi, i risultati faticano ugualmente ad arrivare. Se nello sport il talento naturale non basta, infatti, spesso non sono sufficienti nemmeno una preparazione perfetta e uno stile di vita irreprensibile. A nulla servono i calcoli su “picchi di forma” e “wattaggi” perché il ciclismo non è matematica e i corridori non sono macchine. L’incidente per gli uomini e le donne del “gruppo” è sempre dietro l’angolo, tanto in gara, quanto in allenamento. Così come la malattia fisica e la mancanza di serenità mentale da cui qualunque essere umano è colpito periodicamente nella propria vita.
Forse, però, se il trovarsi in condizioni ottimali fosse imprescindibile per avere successo, i successi dei vari corridori sarebbero molto pochi. Forse, infatti, l’eroismo sportivo che contraddistingue i grandi campioni sta proprio nella loro capacità di arrivare con il cuore là dove, in un certo momento, gambe e testa non possono arrivare. Allo stesso tempo, però, l’essere campione va ben oltre il palmares, perché Campione è l’uomo o donna che nella pratica sportiva riesce a far risaltare le proprie doti umane migliori.
La scuola del ciclismo
Con i suoi gesti di umanità che vanno al di là delle rivalità agonistiche e degli interessi personali, il ciclismo ci parla di rispetto. Rispetto per la fatica dei compagni e degli avversari. Il rispetto del “popolo del ciclismo” che, nella sua forma più autentica e per antica tradizione, applaude vinti e vincitori, campioni e gregari, trascendendo tifoserie e simpatie. Un rispetto che si trasforma in disponibilità al sacrificio personale al fine di portare al successo il compagno più adatto a vincere una determinata corsa e in riconoscenza da parte del vincitore nei confronti dei compagni di squadra. Riconoscenza che porta anche i più grandi Campioni a non rimanere mai cristallizzati nel proprio status, bensì a mettersi loro stessi a servizio della squadra, ricoprendo anche i ruoli più umili – incluso quello, tanto faticoso quanto prezioso, di “porta-borracce”.
Certo, come in ogni ambito, anche nel ciclismo ci sono aspetti belli e altri che lo sono decisamente meno. Ci sono gli esseri umani con i loro difetti. Ciò che conta però è cercare continuamente di migliorarsi, senza mai dimenticare la funzione educativa che il ciclismo ha sempre avuto. Molto spesso, infatti, il mondo del ciclismo utilizza l’ampio spazio delle dirette e degli approfondimenti a esso dedicati per trasmettere messaggi di legalità e civiltà – dal rispetto per l’ambiente, di cui il ciclismo, anche come pratica individuale, è paladino, fino ad arrivare a tematiche culturali di inclusione e accoglienza, proprio sulla base del già citato rispetto.
A differenza di quanto accade per altri sport, inoltre, il ciclismo è accessibile a tutti gratuitamente. Le gare ciclistiche ci passano sotto casa e portano intere città a riversarsi nelle strade da esse attraversate. Il ciclismo si vive così. A bordo strada, accanto al gruppo, incitando tutti, dal primo all’ultimo, in un clima di grande festa. Spesso si ottiene in cambio un sorriso, un saluto, una borraccia… Ma quello che si riceve sempre è una grandissima emozione. Ed è di questo che il ciclismo vive.
Cristina Resmini