Nonostante non se ne stia parlando molto, la prossima domenica 12 giugno si terrà il referendum sulla giustizia, che sottoporrà al voto degli elettori cinque quesiti in merito, appunto, ad argomenti abbastanza tecnici a proposito della magistratura e del sistema giudiziario. Come ogni referendum abrogativo, avranno il potere di cambiare le leggi che toccano. Questo però avverrà solamente se gli elettori al voto supereranno il 50% più uno degli aventi diritto. Se non dovesse raggiungersi questo quorum, invece, in queste leggi non cambierà nulla. I quesiti sono stati proposti dalla Lega e dai Radicali, ma a dire il vero nemmeno loro stanno portando avanti la battaglia referendaria con troppo entusiasmo: sono ben consapevoli che l’elevato tecnicismo delle questioni e il bel tempo di inizio giugno portino molte persone a schivare le cabine elettorali.
Prima di parlare dei singoli quesiti del referendum del 12 giugno, bisogna fare una premessa sul contesto giudiziario italiano. Se non vivete su Giove, sapete che la farraginosità della giustizia, unitamente ai tempi biblici e agli scandali che hanno coinvolto spesso la magistratura, rendono abbastanza problematica la gestione dei processi in Italia.
Queste caratteristiche hanno una ricaduta molto forte sull’economia e sugli investimenti: un’azienda che per esempio vuole fare affari in Italia, sa che potrebbe imbattersi in un processo dai tempi molto dilatati. Sa che impiegherà 500 giorni per arrivare a una prima sentenza del Tribunale, quasi 800 per la seconda in Corte d’Appello, 1300 giorni per la terza in Cassazione. La questione giustizia, dunque, potrebbe essere un forte disincentivo agli investimenti. Anche per i singoli magistrati, poi, la vita non scorre beata: secondo Sabino Cassese, uno dei costituzionalisti più esperti del nostro Paese, un pm italiano ha un carico di lavoro 8 volte superiore a quello di un suo omologo in un altro Stato europeo in media.
Come è organizzata la magistratura in Italia
La magistratura in Italia è organizzata in autonomia. Non può essere la politica, per esempio, a decidere promozioni e sanzioni dei vari giudici, perché questo si tradurrebbe in una pericolosa vicinanza, a cui si potrebbero aggiungersi clientelismi e scambi di favore. La magistratura dunque si autogoverna e lo fa con il CSM, il Consiglio Superiore della Magistratura. Questo si declina a livello locale nei Consigli Giudiziari, che hanno sede in ogni Corte d’Appello. Del CSM fanno parte 27 membri: l’organo è presieduto simbolicamente dal Capo dello Stato, ma la carica viene fattivamente portata avanti dal Vicepresidente. Vicino a lui c’è poi il Procuratore Generale della Corte Suprema di Cassazione.
Gli altri componenti sono giudici eletti per i 2/3 dai magistrati ordinari (e vengono definiti “togati”), mentre i restanti sono eletti dal Parlamento riunito in seduta comune, tra i professori universitari in materie giuridiche e tra gli avvocati che esercitano la professione da almeno 15 anni. Questi ultimi otto sono detti “membri laici”. L’obiettivo di questa eterogeneità nell’elezione era, secondo chi ha scritto la Costituzione, la creazione di un certo equilibrio e di un certo legame con il Paese, senza che la magistratura diventasse un pianeta completamente a sé, pur mantenendo una certa autonomia.
Indipendenza e correntismo: il Caso Palamara
Chi compone il CSM, però, per quanto indipendente ha una sua sensibilità personale, che si traduce in una corrente d’appartenenza, molto spesso. Questo, nel tempo, ha portato ad alcune storture: le diverse correnti convivono e si basano su degli accordi nella spartizione di incarichi, ruoli e promozioni in giro per il Paese, visto che è proprio il CSM a deciderli. Nel 2019, tutto questo è emerso alla luce del cosiddetto “Caso Palamara”, una questione molto complessa che ha riguardato un potente membro del CSM e presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Luca Palamara.
Il magistrato romano è stato accusato di aver ricevuto del denaro per influenzare delle sentenze. Il problema, però, è un altro. Palamara sarebbe venuto a conoscenza delle indagini a lui relative tramite la sua rete di conoscenze nelle procure e, di conseguenza, avrebbe cercato di porre a capo della Procura di Perugia (competente per i magistrati di Roma) un soggetto a lui vicino. Ma non solo. Durante le indagini, è saltato fuori che questo modus operandi era di fatto molto comune nel CSM, i cui membri trattavano e si incontravano con vari politici per la spartizione delle cariche.
Palamara è stato protagonista di un caso che ha rappresentato solamente la punta dell’iceberg. A ogni corrente, infatti, sarebbe spettato, a seconda del peso, la nomina di loro membri ai vertici degli uffici giudiziari. Questo avrebbe causato l’ennesima torsione del sistema. Non essere iscritto a nessuna corrente, sarebbe stato, al di là della singola competenza, un fattore fortemente penalizzante per la carriera del singolo giudice.
La Lega e i Radicali, dunque, hanno proposto cinque referendum per cercare di scardinare queste logiche.
Primo quesito: il CSM
Il primo quesito propone di eliminare l’obbligo per chi si voglia candidare come membro del CSM di trovare le 25 firme a supporto della sua candidatura, per ridurre il peso delle correnti. Le 25 firme, pur apparendo come una quota molto ridotta, in realtà comportano che ogni magistrato faccia riferimento al tribunale in cui lavora e in cui è noto. Va da sé. Con la presenza delle correnti, farsi supportare da 25 colleghi è un fattore quasi automatico, che cementa il potere delle stesse e agevola chi ne è parte.
Secondo: le valutazioni sui magistrati
Il secondo quesito, invece, riguarda le valutazioni della professionalità e della competenza del magistrato, oggi operata proprio dal CSM. Dentro i Consigli giudiziari, arbitri e giocatori sono gli stessi: qui solo i giudici giudicano la competenza degli altri giudici. Le valutazioni, però, sono oggetto di molte critiche, perché si rischia che promozioni e sanzioni siano automatismi. In queste votazioni si possono esprimere per ora solo i magistrati e non gli avvocati o i professori universitari. La vittoria del sì al referendum, dunque, scardinerebbe questo modello escludente, per allargare la platea di coloro che si esprimono sulla competenza di un giudice agli altri membri, anche non togati, dei Consigli giudiziari.
Terzo: la separazione delle carriere
La terza questione ha per oggetto la separazione delle carriere, oggi di fatto inesistente. Nel nostro sistema, non esiste al momento differenza tra i giudici che indagano e i giudici che, invece, giudicano appunto. Si parla di funzione requirente e funzione giudicante. Molti magistrati nel corso della loro carriera passano dunque da un ruolo all’altro più volte (fino a un massimo di quattro). Il referendum del 12 giugno propone invece che la scelta avvenga all’inizio della carriera e che ogni magistrato si attenga a essa per il resto della sua vita.
Quarto: la custodia cautelare
La quarta domanda ha a che fare invece con la custodia cautelare. Si tratta dello strumento utilizzato per privare della libertà personale una persona attraverso il carcere o gli arresti domiciliari prima del processo. Nei Paesi democratici, però, questo strumento deve avere dei limiti, perché normalmente il percorso logico è opposto. Prima il processo e poi, eventualmente, il carcere. Quando però il soggetto rischia di ripetere il reato, o di inquinare le prove o di fuggire, allora si può applicare la custodia cautelare. È uno strumento indispensabile, ma in Italia ogni anno circa un migliaio di persone vengono sottoposte a questa misura per poi risultare innocenti.
Ancor più impressionante è considerare che circa un terzo dei detenuti attualmente in carcere è tale proprio in ragione della custodia cautelare. Si tratta però di un mezzo costoso e a volte, a detta di molti, un po’ abusato. La vittoria del sì prevede che, invece, per i reati la cui pena finale non superi i quattro anni di reclusione, questo strumento non possa essere applicato se il requisito è quello della reiterazione del reato.
Quinto: la decadenza e l’incandidabilità
Quinto e ultimo quesito riguarda invece la legge Severino, relativa alla decadenza e all’incandidabilità delle persone che riportano una condanna penale e che rivestono (o ambiscono a rivestire) una carica pubblica. Questa norma, però, concepita per scalfire la corruzione e rendere la classe politica più virtuosa, rischia di non essere granché garantista. Oggi, per esempio, un sindaco che venga condannato in primo grado (e non in via definitiva) può essere sospeso fino a un massimo di un anno e mezzo. Con evidenti conseguenze sulla sua credibilità e sulla sua carriera, anche se di fatto poi dichiarato innocente. Oggi è una conseguenza automatica, prevista da questa legge del 2012. Il referendum, con la vittoria del sì, punta proprio a scalfire questo automatismo. La decadenza dai pubblici uffici tornerebbe dunque a essere decisa caso per caso.
Ma c’è dell’altro: referendum del 12 giugno o riforma Cartabia?
Al momento, la riforma Cartabia al momento in discussione al Parlamento ricalca alcuni dei punti proposti dal referendum del 12 giugno. La raccolta firma per il CSM verrebbe abrogata, sarebbe allargato il voto agli avvocati nei Consigli Giudiziari sulla competenza dei singoli magistrati e verrebbe limitata la possibilità del giudice di cambiare funzione all’interno della carriera, da PM a giudice e viceversa (al massimo una volta). I magistrati, il 16 maggio, hanno scioperato contro questa riforma, già approvata alla Camera e in discussione al Senato.
Non dicono che non sia necessaria, ma la ritengono problematica nei confronti della categoria. In particolare criticano l’eccessiva gerarchizzazione degli uffici che si creerebbe, andando a colpire negativamente la qualità del lavoro per ogni singolo magistrato. Un altro punto riguarderebbe i metodi di valutazione dei magistrati: bersaglio delle critiche della categoria è il “fascicolo della valutazione”, che renderebbe i giudici più intimoriti nel prendere alcune decisioni nei singoli processi. Lo sciopero è stato indetto dall‘Associazione Nazionale Magistrati, ma ha visto un’adesione abbastanza scarna, con una partecipazione tra il 40 e il 50%.
Referendum sulla giustizia o weekend al mare?
Serve però un quorum perché questi referendum del 12 giugno abroghino davvero le norme. L’essere affiancati alle questioni dell’eutanasia e della cannabis, in realtà, avrebbe trascinano molte più persone al voto, ma la Corte Costituzionale ha bocciato la proponibilità di questi due quesiti. Quelli rimasti in piedi sulla giustizia, quindi, anche nella mente di chi li ha proposti, sollevano un certo scetticismo. Si tratta di questioni molto tecniche, che non cambiano in modo tangibile e concreto la vita delle persone (anche se con tutte le considerazioni del caso) e che, probabilmente, in un weekend soleggiato a metà giugno, non invoglieranno molte persone a recarsi alle urne.
Elisa Ghidini