Uno svincolo ferroviario, un bivio, una scelta. Il trolley problem, o dilemma del carrello, è un esperimento mentale che ci costringe a prendere una decisione impossibile. Una scelta che può solo essere dettata da quello che riteniamo essere il “male minore”.
Un vagone senza conducente scorre lungo un binario. Più avanti, cinque persone sono legate a quello stesso binario. Il vagone si avvicina inesorabilmente. In mezzo, tra il vagone e le cinque persone legate, c’è una leva di scambio ferroviario. Noi ci troviamo vicino alla leva: possiamo ancora cambiare il percorso del vagone. Possiamo deviarlo verso un binario laterale, al quale è legata invece una sola persona. Ecco il dilemma del carrello. Lasceremo che il vagone faccia il proprio corso, abbandonando cinque persone al proprio fatale destino? O sceglieremo di azionare la leva e condannare a morte una persona che senza il nostro intervento sarebbe rimasta indenne?
Aut-aut. Non c’è autoimmolazione possibile, non esiste una terza opzione. Solo una scelta impossibile tra un male e un male ancora peggiore. E noi, malcapitati, possiamo solo agire (o non agire) in base a quello che, in coscienza, riteniamo essere il minore tra i due mali. Ma siamo sicuri che l’individuazione del “male minore” sia una questione oggettiva?
Il dilemma morale
Ideato dalla filosofa britannica Philippa Foot nel 1967, il dilemma del carrello è nato come esperimento mentale nell’ambito della filosofia morale. Con questo esperimento, Foot intendeva illustrare le due antitetiche concezioni – kantismo e utilitarismo – che stanno alla base della nostra scelta di non agire o di agire. Nella prima, l’uomo è visto come fine a cui non siamo autorizzati a porre fine. Nella seconda, l’uomo diventa mezzo, al fine di salvare altre cinque vite. In un caso, parliamo di valore intriseco dell’essere umano, nell’altro, di massimizzazione del profitto. Dove sta quindi il male minore? Nel salvare cinque vite al prezzo di una sola o nel lasciar morire cinque persone senza però macchiarsi di omicidio? Perché, in fondo, è di omicidio che si tratterebbe.
In base ai sondaggi, la stragrande maggioranza degli intervistati propenderebbe per il salvare più vite possibile. È qui che entra in gioco la variabile “uomo grasso”, inserita dalla filosofa statunitense Judith Jarvis Thompson nel 1976. Se, plausibilità a parte, potessimo arrestare la corsa del vagone spingendo sui binari un uomo sufficientemente in carne, lo faremmo? Improvvisamente, i favorevoli al “salvare più vite possibile” diminuiscono. Azionare una leva invece di spingere un uomo ci fa infatti sentire meno responsabili. Eppure il risultato è sempre lo stesso: cinque vite al prezzo di una. La leva, come la tastiera di un computer, ci tiene a “distanza di sicurezza” tanto dalla persona che stiamo ferendo quanto dall’assumerci la responsabilità delle nostre azioni. Ma la sicurezza è ovviamente solo del carnefice.
In sostanza, il dilemma del carrello ci dimostra che, qualsiasi sia la nostra scelta, otterremo sempre quello che Foot definisce “doppio effetto”. Da un lato, avremo l’effetto desiderato (non uccidere/salvare cinque vite), dall’altro, dovremo fare i conti con l’effetto previsto ma non desiderato (la morte di cinque persone/omicidio di una persona).
Applicazioni del dilemma del carrello
Benché concepito all’interno del dibattito sull’aborto, il noto esperimento è stato declinato in innumerevoli varianti (tra cui quella riportata a inizio articolo) e applicato alle situazioni più disparate. Particolarmente interessante a questo proposito è la disamina proposta in un articolo di Bbc Future del 2020 in cui si parla di guerra nucleare e moralità.
Nel 2017, il filosofo giapponese Masahiro Morioka ha associato il dilemma del carrello ai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki. È noto infatti che una delle principali giustificazioni addotte dagli Stati Uniti riguardo all’utilizzo delle armi nucleari fosse il perseguimento del “bene superiore”. Non si può in effetti escludere che una battaglia campale protratta tra Usa e Giappone avrebbe comportato un numero di vittime maggiore rispetto a quello provocato dalle due bombe atomiche. Tuttavia, Morioka avverte: “Nel cercare una giustificazione, siamo portati a fingere che il punto di vista delle vittime non esista affatto – cosa che è moralmente e spiritualmente sbagliata, problematica e ripugnante“.
La retorica del “bene superiore” diventa insostenibile quando si gioca con vite umane inermi e la deresponsabilizzazione di cui gode chi dà gli ordini senza eseguirli è inammissibile. Sebbene un po’ estrema e provocatoria, trovo quindi particolarmente calzante la proposta avanzata dal Professor Robert Fisher negli anni Ottanta e riportata sempre da Bbc Future. Fisher sosteneva che la soluzione migliore per proteggere i codici nucleari fosse inserirli in una capsula da impiantare vicino al cuore di un volontario. In questo modo, se mai il Presidente degli Stati Uniti avesse voluto usare le armi nucleari, avrebbe dovuto uccidere brutalmente un innocente per estrarre i codici. Prima di sterminare milioni, devi ucciderne uno. O, con le parole di Fisher, il leader deve prima “realizzare che cosa sia la morte – la morte di un innocente. Sangue sul tappeto della Casa Bianca”.
Cristina Resmini