Romanzo o autobiografia? L’età bianca (Avagliano 2016) di Alessandro Moscè non è solo una testimonianza, ma qualcosa di più eterogeneo. E’ un’auto-fiction, dove lo scrittore marchigiano si occupa del suo eponimo che da bambino fu colpito da un sarcoma di Ewing, un tumore alle ossa altamente mortale (come aveva fatto nel precedente Il talento della malattia, sempre edito da Avagliano nel 2012).
Moscè è guarito, sorprendentemente (la casistica, nel 1983, era impietosa). Ma non dice solo questo, perché la sua dimensione creativa si amplia partendo dall’amore per Elena, dalla passione per la Lazio, dall’esaltazione di Giorgio Chinaglia, mito infantile, dalla nostalgia per i nonni, per la suora delle elementari, per i suoi luoghi abitati da sempre: Fabriano e Ancona.
Il romanzo ha un carattere visionario, perché Alessandro Moscè alimenta il dubbio che la sua Elena sia la morte venuta a visitarlo trent’anni dopo. E’ la donna il punto di fuga del libro, ma è anche la morte appunto, che Moscè indica nel suo svilimento, come una forma di spettacolarizzazione più che come la chiusura del ciclo naturale della vita. Oggi, infatti, negli Stati Uniti, c’è anche chi paga un funerale perché il defunto appaia seduto davanti ad un tavolo e ad un bicchiere di vino per lenire la sofferenza dei parenti: cioè per far sembrare il morto ancora vivo.
L’età bianca è l’adolescenza, un’età senza compromessi che Moscè riassapora una seconda volta dopo averla attraversata da malato. E lo fa con Elena, la ragazzina ormai diventata donna. “Elena profumava di adolescenza, non di fragranze femminili che si spruzzano sul collo e sui polsi. Come avrebbe fatto a lasciarla la domenica per cinque giorni e a rivederla solo il venerdì successivo? La distanza, quei chilometri incolmabili, tra impegni universitari e assilli infrasettimanali, lo facevano precipitare nel buio. Doveva dirglielo ad Elena, il prima possibile. Doveva dirle che era innamorato, senza sé e senza ma. Ma il suo rifiuto avrebbe coinciso con una ferita non rimarginabile. L’attesa è sempre meglio della negazione, perfino del compimento, si sa”. Alla fine l’io narrante riuscirà a conquistare il suo passato attraverso l’immagine femminile non più dolorosa.
Questa auto-fiction procede a scatti, tra fatti e narrazione di idee. A volte Moscè sorprende, perché inserisce perfino un linguaggio medico nelle sue descrizioni, per specificare che cosa è un sarcoma, come si cura nel Duemila e come si curava quando ne fu aggredito. Se gli episodi sono più distensivi, la prosa assorbe un tono poetico, un’affezione verso tutto ciò che è ricordo. La nudità delle cose aiuta a capire non solo i personaggi, ma anche e soprattutto gli anni Ottanta e Novanta dentro i quali si dipana gran parte dei capitoli. Il 1983, l’anno di inizio del libro, è l’anno della sparizione di Emanuela Orlandi, del caso giudiziario di Enzo Tortora e delle prime fasce elastiche sulla fronte delle ragazze. I Righeira cantavano “Vamos a la playa” e la Roma di Falcao vinceva il suo secondo scudetto.
Elisabetta Monti