Riavvolgendo il nastro della memoria, una perdita, un’umiliazione, una ferita sociale o sentimentale sono tutti momenti su cui il nostro cervello sembra indugiare inesausto, velando lo sguardo di tristezza anche a distanza di anni. Colpa del negativity bias: secondo la scienza, le esperienze traumatiche, di qualsiasi natura, tendono a pesare sulla ricezione individuale in modo più incisivo rispetto a quelle positive.
L’esperimento
Il negativity bias, o bias della negatività, è una tendenza che conduce ad avere una focalizzazione prioritaria su tutto ciò che attiene alla sfera del pessimismo e del turbamento. È stato provato, infatti, che davanti a un’immagine densa di stimoli negativi la mente umana impiega più tempo a elaborare gli input in essa contenuti. Ad affermarlo è una ricerca del 1998, in cui gli studiosi Cacioppo, Chartrand, Larsen e Smith hanno osservato l’attività elettrica del cervello dei partecipanti relativa alle sensazioni prodotte da differenti sollecitazioni visive.
Ai soggetti coinvolti nell’esperimento è stato chiesto, semplicemente, di guardare le figure mostrate loro di volta in volta, così da analizzare le reazioni naturali nell’immediato. Le immagini spiacevoli, contrariamente a quelle neutre o allegre, venivano registrate in modo più marcato, poiché richiedevano un maggior consumo di risorse energetiche da parte dell’individuo. Si tratta di un meccanismo riscontrabile, a ben vedere, nella vita di tutti i giorni di larga parte della popolazione. È così che la negatività si radica nei pensieri, a discapito della positività, che fa invece capolino timidamente.
Estendendo l’esito della ricerca alle implicazioni nella quotidianità, si è notato come il negativity bias giochi un ruolo da protagonista nei processi valutativi. Quando ci troviamo di fronte a una scelta è frequente soppesarne pro e contro, con un’attitudine spiccata a dare più rilievo agli aspetti potenzialmente rischiosi o svantaggiosi, rispetto agli eventuali benefici e guadagni. Un’asimmetria di peso specifico, consolidata, che ha come conseguenza l’immobilismo decisionale.
C’è la luce, grazie al buio
Siamo più reattivi, insomma, di fronte al dolore, alla sofferenza e alla paura. Questo perché, se esposto a impulsi negativi, il nostro organismo si mobilita con una chiamata a raccolta di dispendiose risposte fisiche ed emotive che persistono nel tempo, con ripercussioni sulla memoria. Il cervello ricorda quindi nitidamente il negativo, perché costoso in termini di ricezione, rispetto al positivo. Ciò vale anche per le informazioni e le lezioni spesso dure che apprendiamo, nostro malgrado, nel corso dell’esistenza.
Attraversare le difficoltà, d’altra parte, aiuta enormemente a sviluppare gli strumenti individuali di risoluzione dei problemi, il cosiddetto problem solving. Una mente allenata alla negatività è infatti più incline – lo confermano studi psicologici – a sciogliere i nodi in tempi rapidi. Ma, soprattutto, senza l’acuta percezione della tristezza non esisterebbe nemmeno quella del suo meraviglioso opposto, la felicità. Non è una sorpresa: diceva Carl Gustav Jung, nel 1960, che una vita non può dirsi felice senza una parte di oscurità. Ed è così, perché eliminando uno dei due termini non esisterebbe nemmeno l’altro. È una valorizzazione reciproca, che ci ricorda la necessità di accogliere entrambi.
Il punto è che, complice il negativity bias, siamo portati a non curarci della gioia, in quanto la sua elaborazione non è complessa, come avviene per la tristezza. Rischiamo così di lasciarla scorrere in modo passivo e, inevitabilmente, meno intenso. Rafforzarne la rappresentazione nella nostra testa è però possibile. Ecco quindi un esercizio apparentemente semplice, per rompere lo schema a cui siamo abituati: imparare a riconoscere, dare importanza e celebrare ogni piccola, grande gioia. Ripetere tutti giorni.