Erano gli anni 2000 quando Abercrombie&Fitch regnava sovrano nell’industria fashion. Entravi nel negozio e non potevi fare a meno di acquistare una felpa o una t-shirt che avevano il magico potere di farti sentire parte della crew del marchio. Ma come tutti i regni, anche quello capeggiato dai muscolosi ragazzi bianchi americani, era destinato a finire.
L’esclusione come tratto distintivo
Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando è esploso il mito di Abercrombie&Fitch. Il marchio ha costruito il suo successo seguendo il mito Wasp (White Anglo-Saxon Protestant), per cui erano banditi dal negozio tutti i potenziali dipendenti che, desiderosi di entrare a far parte del mondo dell’East Coast, non ne possedevano i requisiti. I commessi infatti erano alti, atletici e soprattutto bianchi: la perfezione era il requisito più importante da rispettare, tant’è che il Ceo Mike Jeffries una volta dichiarò:
Le persone di bell’aspetto attraggono quelle belle, e noi vogliamo un mercato di gente cool, di bell’aspetto… molta gente non c’entra con i nostri vestiti e non può entrarci.
In poche righe, l’amministratore delegato ha sintetizzato lo spirito di Abercrombie. Basato esclusivamente sulle apparenze e sulla superficialità, i fortunati che potevano far parte del suo mondo erano i benvenuti. Al contrario, chi non rispettava i canoni estetici richiesti, era invitato a restarne fuori. La regola era rivolta ai dipendenti, ma anche ai clienti. Oggi sembra un’assurdità, ma all’interno dei negozi Abercrombie&Fitch era impossibile trovare un capo large, per non parlare di taglie superiori. Il motivo era sempre lo stesso: escludere chi non rispecchiava l’ideale dell’atletico californiano, la cui immagine dominava i cartelloni e le vetrine dei negozi.
Le accuse di razzismo
Abercrombie&Fitch è stato al centro di numerose denunce da parte di minoranze etniche e religiose, che reclamavano più parità di trattamenti, in tempi in cui concetti come body positivity e inclusion non esistevano, o meglio, facevano fatica ad imporsi. Un caso eclatante ha visto al centro proprio il Ceo del marchio. Una commessa americana, nel 2006, ha ammesso che era solita far visita al negozio presso cui lavorava e proprio in queste occasioni, lo store riduceva l’orario dei dipendenti neri e al piano terra (ovvero all’accoglienza) collocava i dipendenti più attraenti, ovviamente bianchi. Insomma, il marchio voleva la creme de la creme e non c’era spazio per le minoranze etniche.
Il caso Samantha Eloauf
Famoso è stato il trattamento che ha ricevuto Samantha Elauf che nel 2008 ha avuto il coraggio di portare il marchio dinanzi la Corte suprema americana. La giovane ammette di essere stata vittima di razzismo quando, in sede di colloquio, Abercrombie&Fitch la scartò per via del velo islamico che indossava. Il caso ha scoperchiato il vaso di Pandora. Come è possibile che non vengano ammessi potenziali dipendenti per via della religione professata? La risposta è chiara, ma a sua volta Abercrombie&Fitch si è difeso affermando che è presente una “look policy” che non ammette cappelli e vestiti neri. Ha poi aggiunto che Samantha era in linea con il look da “ragazza della East Coast”, ma il suo velo non era coerente con l’immagine che il brand voleva proteggere. Elauf vinse la causa, creando un precedente per la Corte suprema.
L’irrealizzabile mito americano
Il caso di Abercrombie&Fitch non è stato l’unico a distinguersi per l’esclusione. Il suprematismo bianco che si nasconde dietro un ideale irraggiungibile di perfezione ricorda molto quanto è accaduto a Victoria’s Secret. Le strategie di marketing, che fanno leva sul desiderio tipicamente adolescenziale di sentirsi parte di un gruppo, si scontrano con l’etica, dando inizio a storie dal finale che non hanno niente a che vedere con la freschezza che voleva trasmettere Abercrombie. Il cambiamento a cui stiamo assistendo oggi (che speriamo essere veritiero) è il risultato di decenni fatti di menzogne e di falsi miti. Per anni, adolescenti e non, hanno sperato di essere come i modelli che apparivano nelle riviste, dotati di un viso e un corpo perfetto. Il desiderio si è poi trasformato in ossessione per qualcuno, spingendo molti ragazzi e ragazze a stravolgere la loro immagine, il tutto per compiacere un pubblico desideroso di perfezione.
Che fine ha fatto Abercombie&Fitch?
Le perdite economiche hanno portato il marchio a chiudere centinaia di negozi nel mondo, segnando così la fine di un’era che ha caratterizzato il mondo fashion di tutti gli anni 2000, fatta perlopiù di razzismo, sessismo e pregiudizi nei confronti di chi aveva la colpa di non essere nato bianco. Recentemente Abercrombie ha compiuto una sorta di rebranding, come hanno fatto tanti marchi per pulirsi la coscienza. Oggi i dipendenti vengono assunti seguendo adeguati criteri, ma resta indelebile la narrazione che ha portato avanti fino a tempi recenti. Il marchio è cascato così nella sua stessa trappola. Inscindibile dall’ideale di bellezza esclusivo che gli ha garantito il successo, oggi gli ingredienti che lo hanno velocemente consegnato all’olimpo, si sono trasformati nella sua più grande debolezza.
Giulia Poggiali