Nell’era dei social network siamo abituati a tenerci aggiornati seguendo le notizie con il minimo sforzo. Se il mondo è sconvolto da una guerra, tuttavia, l’accesso – che siamo abituati a dare per scontato – a quelle stesse notizie pone con forza una questione: quanto vale l’informazione? E chi è che si impegna, mettendo a repentaglio la propria sicurezza, per garantirla? Ieri come oggi, parliamo dei reporter.
Ieri
Nell’immaginario collettivo il reporter di guerra chiama alla mente icone di coraggio, intraprendenza, declinate anche in letteratura con toni epici o romantici. Nel 1876, per esempio, il romanzo Michele Strogoff di Jules Verne ha contribuito a far conoscere e diffondere il ruolo dei giornalisti sul campo, attraverso i personaggi di Alcide Jolivet e Harry Blount. Dapprima nemici in competizione – cavalcando lo stereotipo del corrispondente senza scrupoli – i due diventeranno poi alleati nella missione della condivisione informativa. Il 1876, d’altronde, non è lontano dal 1854, anno in cui, per la prima volta nella storia, fu inviato un giornalista professionista a rendere conto di un conflitto in corso, mostrando quanto vale l’informazione. Si trattava di William Howard Russell, incaricato dal Times di raccontare gli svolgimenti della guerra in Crimea.
Il profilo del reporter ha subito molteplici evoluzioni e ha mutato fisionomia nel corso dei decenni. Figura consacrata, come nel caso dell’italiano Luigi Barzini (1874-1947), inviato per Il Corriere della Sera, ma anche di parte, come nella Prima Guerra Mondiale, in cui non era raro che i corrispondenti fossero manovrati dalle esigenze propagandistiche dei Paesi di riferimento; ancora, appassionata e votata alla verità, come in Vietnam. Figura comunque, per un lungo e decisivo arco di tempo, centrale e presente nel cuore della società.
E oggi
In anni recenti, invece, fino a poche settimane fa, la rappresentazione del reporter di guerra era divenuta, si potrebbe dire, marginale, dall’eco sbiadita. Questo perché era rimasta all’ombra di conflitti forse meno visibili dell’attuale guerra in Ucraina, che ha ridestato la consapevolezza di un mestiere tanto cruciale quanto pericoloso. Lo dimostra la tragica morte, avvenuta il 15 marzo, della giovanissima Alexandra Kuvshinova, giornalista ucraina di 24 anni intenta a restituire la cronaca degli avvenimenti non lontano da Kiev per Fox News, e del suo cameraman, Pierre Zakrzewski. Il risveglio della coscienza avviene così con irruenza, facendo risuonare nella memoria altri nomi, da Ilaria Alpi a Maria Grazia Cutuli, e obbliga a fermarsi per una riflessione.
Essere sul posto
Eventi simili mettono in luce la terribile ambivalenza dell’espressione “essere sul posto”. Il posto giusto per il mestiere, per divenire gli occhi e le orecchie del mondo, quello sbagliato per la vita. Se il mestiere è però parte integrante della vita, se i principi che lo animano sono sentiti come imperativi, se c’è entusiasmo e desiderio di dedicarsi a una causa che porta in secondo piano i rischi, il confine tra giusto e sbagliato può assottigliarsi drasticamente. Sacrificare la propria incolumità può risultare una scelta incomprensibile dall’esterno, che lascia attoniti. Ma merita senza discussione l’esercizio di un atteggiamento mai ovvio o banale: il rispetto.
Oggi il concetto di distanza è stato sostituito da quello di prossimità. L’altrove è dietro l’angolo ed è sufficiente attivare lo smartphone per reperire, in un istante, le ultime novità da qualsiasi parte del mondo. Può diventare difficile, allora, vedere i contorni di uomini e donne, carne e ossa, che pongono se stessi a servizio degli altri affinché tutti possano addentrare lo sguardo in una realtà esistente oltre le barriere di uno schermo.
E se c’è la censura?
L’informazione è libera: è un caposaldo della cultura democratica che non ha tuttavia riscontro universale. In Russia i reporter si sono trovati ad affrontare l’urto con la cosiddetta legge contro le fake news, emanata dal Cremlino all’inizio di marzo e rinnovata il 25 dello stesso mese. I giornalisti sono di fatto costretti a tacere in merito alle atrocità e ai dissensi relativi alla guerra, pena la reclusione fino a 15 anni. Un dilemma etico e morale che ha comportato e comporta tuttora per molti professionisti l’esigenza di prendere una decisione radicale: restare e adattarsi o fuggire ed esporsi a conseguenze aspre col fine di onorare il proprio senso del dovere. Sono 150 i giornalisti russi fuggiti finora.
E allora quanto vale l’informazione? Per qualcuno i fatti parlano da soli e autorizzano un’unica risposta: la vita.
Barbara Balestrieri