Italia-Macedonia: fuori dai mondiali
Ieri, giovedì 24 marzo, si è consumato l’ennesimo dramma sportivo della nostra nazionale e per tutto il sistema. Un sistema privo di autocritica. Al “Renzo Barbera” di Palermo gli Azzurri hanno perso 0 a 1 contro la modesta Macedonia del Nord e hanno detto addio alla possibilità di partecipare al mondiale che si terrà in Qatar il prossimo inverno. Tra errori inverosimili di Berardi, l’inutilità di Ciro Immobile e scelte discutibili del CT Mancini, l’Italia per la seconda volta nella sua storia non parteciperà alla Coppa del Mondo. L’Europeo della scorsa estate ci ha illuso: pensavamo di poter superare con il minimo sforzo le qualificazioni mondiali. Arrivati alla partita con la Macedonia del Nord le attenzioni erano concentrate sulla sfida con il Portogallo, giacché con la Macedonia sarebbe stata una passeggiata. Ed infatti, la presunzione non porta mai ad esiti sperati. Un po’ come successe agli inglesi a Wembley in finale la scorsa estate.
A dispetto degli errori tecnici individuali e di gruppo, è giusto sottolineare che l’onta della disfatta e la colpa appartengono a tutti, nessuno escluso: dai giocatori in campo ai dirigenti della FIGC, dai media ai tifosi. È altrettanto necessario fare un plauso alla Macedonia del Nord che, da vittima sacrificale dell’arroganza italiana, è riuscita nell’impresa ammutolendo tutti. Il nostro sistema non funziona più da anni e necessita di un modello basato sull’autocritica.
Il sistema “Italia” e l’assenza di autocritica
Come siamo arrivati a questo? Probabilmente potremmo indagare a livello tecnico e dal punto di vista generazionale le lacune di questa nazionale, potremmo anche sparare a zero su un calciatore o sul Commissario Tecnico, ma fondamentalmente le mancanze derivano da una struttura malferma che anno dopo anno s’incrina sempre più. L’autocritica dovrebbe provenire dalla cornice che attornia la nazionale; da chi ne parla a chi ne costituisce l’organo dirigenziale. La nostra nazionale è collassata seguendo l’impronta lasciata dalla dilapidazione di un patrimonio culturale e identitario. Il nostro paese è sempre più distante da quell’amore di un tempo nei confronti del calcio e le conseguenze si registrano nelle due disfatte del 2017 e di ieri sera.
L’Italia e “il calcio privo di campioni”
“L’Italia del calcio non produce più campioni”, sostengono i detrattori di questa nazionale. Questa opinione è piuttosto condivisa nella sfera pubblica tanto da divenire un postulato buono per ogni occasione. Eppure, non è del tutto vero e la realtà probabilmente è un’altra: l’Italia non produce più campioni non per un assurdo fondamento genetico, ma per una gestione opportunistica dei giovani. Nei settori giovanili non è premiato il tempo e la crescita dei ragazzi; si punta al risultato prestando attenzione al presente e non al futuro. L’assenza di una visione improntata al progresso del ragazzo e di un’attenzione capillare in merito alle sue doti è sintomo di sfiducia nei confronti delle nuove leve.
Per non parlare della scarsa considerazione dei giovani una volta raggiunta l’età per entrare in prima squadra: vengono relegati in panchina o in tribuna nell’eterna attesa di poter sfoggiare il loro talento o prestati ad un club minore che non risparmierà loro lo stesso trattamento. È necessario un ripensamento in questi termini, e una doverosa presa di coscienza circa il futuro dei giovani a dispetto dei risultati.
La colpa di un sistema degenerato che produce disinteresse nei giovani
Pochi mesi fa, il presidente della Juventus Andrea Agnelli, giustificando la Superlega (difficile giustificarla), aveva sottolineato a più riprese la decrescita legata al disinteresse dei giovani al calcio. Il giovane negli ultimi anni non si accosta più al pallone come una volta e se lo fa è per un mero discorso estetico più che affettivo.
Ma chi è il colpevole di tutto ciò se non il succitato Agnelli e compagnia cantante? Chi ha premuto il tasto del “calcio spettacolo” più di venti anni fa tralasciando il valore sentimentale del tifoso? Alla fine degli anni Novanta il calcio è mutato in uno “show” in cui i calciatori si sono evoluti in veri e propri vip attorniati da fama e ricchezza. La conseguenza di questa plastificazione del calcio si ripercuote ancora oggi e viaggia a gonfie vele tramite i social.
Un sistema che allontana i ragazzi
I ragazzi, pertanto, sono cresciuti con il mito di un calcio distante da loro, sempre più avulso dalla realtà e meno passionale dettato da un sistema consumistico che esclude il senso di appartenenza. Le televisioni hanno giocato un ruolo importante in tutto ciò rappresentando il teatro ideale per questa messinscena protratta da ricchi e viziati interpreti del pallone. Ci stupiamo, allora, che il giovane oggi non mostri più lo stesso interesse? Dobbiamo fare autocritica e ripensare il sistema non solo a livello di campo ma anche a livello di comunicativo.
La colpa di un sistema privo di autocritica ha portato a questo ed insistere unicamente sulle ragioni di campo non condurrà a nulla. La catena tra campo ed extra è fondamentale ed il giovane, chiuso nel suo mondo, deve riscoprire la bellezza del pallone. Ripartire dalle basi non significa approcciarsi ad un innovativo ed efficace metodo di allenamento, ma coltivare l’amore tra la palla ed il ragazzo; riavvicinare il calcio alla persona.
Lorenzo Tassi