C’è anche nella guerra, in ogni guerra, un lato estetico. Cosa si mostra e cosa no, quando e in che modo mostrare (al nemico e al mondo) i corpi di chi muore, i palazzi sventrarti e le strade vuote…
Tutto risponde ad un codice comunicativo estetico e questa, se vogliamo, è una banalità.
Eppure, nella guerra novecentesca più digitale mai vista, le immagini si moltiplicano e non tutte corrispondono a quel codice di comunicazione estetica a cui siamo abituatə. Si frammentano gli sguardi, i punti di vista; diventa radicale la capacità di immedesimazione, di immersione e la possibilità di saperne di più, di guardare ancora. È un codice estetico nuovo, per entrare nella guerra e per conoscerla. Evocazione e testimonianza assumono modalità nuove, sì sposta il focus del soggetto che testimonia, si diventa la testimonianza che si porta, ma in modo molto più immediato, incarnato, di qualunque altro tipo di testimonianza.
Se sembra grottesco parlare di estetica della guerra, dobbiamo riflettere sul fatto che (e non da ora) il senso della vista è, nella società moderna e contemporanea quello che di certo è stato privilegiato sugli altri per metterci in relazione con gli eventi e coi contesti. “Estetica” non vuol dire, quindi, meramente “bellezza”, sarebbe uno slittamento semantico troppo semplicistico. Estetica vuol dire “ciò che vediamo” o, ancora meglio, “la costruzione delle immagini che vediamo”. Esiste quindi, innegabilmente, un’estetica della guerra e questa estetica corrisponde a dei canoni, i corpi virili e virilizzanti dei soldati, lo strazio dei civili e delle macerie, gli elementi simbolico-evocativi.
E poi in tutte le guerre, come in questa, affianco al prezioso lavoro dei fotoreporter e, come abbiamo detto, dei testimoni che ci trasmettono attraverso la loro sensibilità e il loro sguardo una presa diretta sulla guerra, dalla guerra (sia della sua acuzia, che della sua quotidianità), ci sono le foto “di posa”. Sono foto che hanno una gettata diversa dalla testimonianza, si proiettano al futuro, vogliono dire un qui ed ora carico di valori più ampi, più lungimiranti. Non raccontano tanto a noi che guardiamo, ma si pongono in relazione con il ricordo che produrranno quando saranno guardate in futuro.
Se delle tantissime foto che raccontano i momenti di questa guerra ci rimarrà un ricordo più o meno nitido, in base alla sensibilità di ciascuno e alla capacità di queste di sbloccare narrazioni nel nostro cervello (e, pure, alla potenza della loro diffusione), questo genere di foto, quelle “di posa” hanno la volontà di cristallizzare il tutto in un momento.
Non racconti processuali, ma attimi totali e auto-portanti.
La foto della bambina col fucile e il lecca lecca sulla finestra è una foto che rimarrà tra i simboli di questa guerra ma è, al contempo, una foto che racconta una storia falsa.
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Non è falso che, come da testimonianza diretta di una cara amica georgiana che ha vissuto da bambina gli anni del massacro di Tiblisi, ai bambini e alle bambine nei conflitti sia imposto di prendersi delle responsabilità armate, ma è falso (e al contempo agghiacciante) il messaggio che questa foto specifica, così ben costruita e carica di simboli, vuole trasmettere.
Vuole raccontarci di una guerra dove le bambine e i bambini hanno autodeterminazione al conflitto, dove ai bambini e alle bambine è dato di scegliere. E allora magari immaginiamo battaglioni di bambini e bambine che si armano per difendere il loro popolo, che vivono una quotidianità carbonara, partigiana. Immaginiamo bambini e le bambine come soggetti forti in questo conflitto, come protagoniste e protagonisti attivi in questa guerra.
La verità, se mai ne esiste una, è differente. Parla di sfollate e sfollati, di occhi pieni di orrore, di paura e sì, anche di odio. Parla di bambine e bambini che vivono sotto terra da settimane, alle quali è ai quali manca tutto, che vedono le persone morire e piangere e puzzare e cacare e pisciare intorno a loro. Bambini soli che attraversano i confini, che sono vittime di tratta, che sono dispersi. Parla di bambine e bambini i cui padri, fratelli maggiori, zii, nonni sono stati armati e preparati a morire e questo fa paura.
Perché in guerra si muore.
Sono bambine e bambini la cui vita è spezzata e che non trovano in questo conflitto nessuna possibile soggettivazione. Per una bambina “fortunata” che ha ancora in papà vicino a lei, un papà che le ha dato in mano un fucile scarico per il tempo di uno scatto, che le ha intrecciato tra i capelli dei nastrini coi colori della bandiera ucraina, che l’ha fotografata con uno smartphone e l’ha postata sui social (immaginiamo, con tenerezza, come hanno confabulato insieme per costruire questa immagine, come hanno riso e si sono compiaciuti del risultato, come hanno scelto insieme lo scatto in cui lei si piaceva) ce ne sono migliaia che piangono di terrore all’idea di non rivederlo più il padre, o che l’hanno perso già, che da giorni vivono nei vestiti sporchi e puzzolenti di umori corporei. Che hanno freddo.
Bambine e bambini che subiscono la guerra e certo, giustamente, che odiano, ai quali va riconosciuto il diritto all’odio, ma che sono del tutto impotenti.
Di bambini nei conflitti si parla sempre molto. E’ una realtà tragica, quella dell’infanzia spezzata dalla guerra, ma è anche, troppo spesso, una retorica utilizzata per polarizzare le opinioni degli adulti.
In Palestina, dove i bambini e le bambine sono, anche qui, non per scelta ma di fatto, i protagonisti e le protagoniste dirette del conflitto, sono attivi da tanti anni riflessioni e percorsi che hanno il preciso obiettivo di restituire a queste bambine e questi bambini uno spazio, fisico e mentale, di gioco e di libertà. Perché se la guerra è una realtà che non può essere soppressa, il diritto all’infanzia dovrebbe essere sempre preservato dagli adulti, per quanto possibile. Ed è questo il motivo per cui la foto “Young girl with candy” è ancora più inaccettabile, perché ci porta indietro, sideralmente indietro, rispetto alle riflessioni che, fuori dalla nostra mentalità occidentale e scevra dall’esperienza diretta della guerra, vengono condotte circa le vite dei bambini e delle bambine nei conflitti.
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La guerra non è una bambina bionda con un fucile su una finestra che cade a pezzi. La guerra non ha simboli e non può essere detta se non con l’orrore e la paura della morte e con i destini collettivi, perché alla fine è questo che rimane.
Facciamola finire qui.