Perché, a oltre trent’anni dal 1990, parliamo ancora di terapie riparative?
Il 17 maggio si festeggia la giornata contro l’omofobia, la bifobia, la lesbofobia e la transfobia, perché nel 1990 l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha dichiarato che l’omosessualità non è (e quindi non è mai stata) una patologia.
Dal 1999 è quindi iniziata l’operazione per vietare le terapie riparative.
Le terapie riparative, dette anche di “riorientamento sessuale”, o “di conversione”, sono terapie para-scientifiche (spesso promosse da realtà di fondamentalismo religioso), che hanno la pretesa di portare le persone omosessuali verso comportamenti etero o comunque di farle desistere dai comportamenti omosessuali.
La condanna delle terapie riparative da parte dei professionisti italiani
Nel 2010 “professionisti della salute mentale” del nostro Paese (come recentemente ha fatto anche il Canada) hanno sottoscritto un documento che dichiara che “qualunque trattamento mirato a indurre il/la paziente a modificare il proprio orientamento sessuale si pone al di fuori dello spirito etico e scientifico”, e persino Tonino Cantelmi, presidente dell’Associazione italiana psicologi e psichiatri cattolici, dichiara riprovevoli le teorie riparative.
Chi sono i soggetti a rischio terapia riparativa e che punti di riferimento ci sono
Chi rischia, concretamente, di incappare nelle terapie riparative? I minori, provenienti da famiglie molto religiose, o adulti stessi, provenienti dallo stesso contesto, e che hanno inconsapevolmente dell’omofobia interiorizzata.
Per chi è credente ed LGBT, in Italia, esistono tante realtà di supporto, e sono segnalate sul portale del Progetto Gionata.
Terapie riparative: le parole di Gianni Geraci del Guado
Una delle più importanti è il Guado, nato oltre trent’anni fa a Milano dall’iniziativa di alcuni attivisti, tra cui Gianni Geraci.
«Debbo dirti che in quasi vent’anni di volontariato con gli omosessuali credenti, pur avendo conosciuto diverse persone che hanno tentato di guarire dal loro orientamento omosessuale, non ne ho conosciuto nessuna che è poi guarita» dichiara Gianni. «Alcune persone hanno poi avuto gravi problemi psicologici e una di loro, che si chiamava Luca, si è addirittura suicidata».
Gianni continua dandoci un importante messaggio, che può far capire a chi è gay e crede che le terapie riparative non sono una strada: «Se ti sposassi senza amare la persona che sposi tradiresti Gesù che ti chiede di abbandonare qualunque ipocrisia»
Due pellicole che fanno riflettere sulle terapie riparative
Per chi volesse approfondire il tema, la cimatografia offre due bellissime pellicole, molto diverse tra loro, ma entrambe interessanti: “I’m Michael”, con un fantastico James Franco, prima attivista LGBT, poi pastore e promotore delle terapie riparative, e “Boy Erased – Vite Cancellate”, in cui Nicole Kidman e Russel Crowe interpretano i coraggiosi genitori di un ragazzo gay, sottratto ad un istituto che praticava le terapie riparative, portando dei giovani al suicidio.
Terapie riparative e identità di genere
Le nuove vittime: le persone bisessuali, transgender e non binary
Oltre al problema dei terapeuti che ancora oggi seguono le terapie riparative, abbiamo anche quello dei professionisti che non sono abbastanza informati sui temi LGBT, in particolare su quelli meno noti, come la bisessualità, l’identità di genere e il genere non binario. Tante volte, infatti, non è ideologia ma semplice incompetenza.
Tentativi di “riportare nel binario” le giovani persone transgender ed enby
Dalle persone transgender ci si aspetta un’aderenza agli stereotipi relativi al genere d’elezione, un orientamento etero relativamente al “genere d’arrivo”, e un desiderio di conformarsi esteticamente ai canoni (cismimetismo, cisnormatività).
Soprattutto i giovanissimi, mandati dal terapeuta dalle famiglie, subiscono misgendering e deadnaming, e non vengono presi sul serio, come persone transgender e non binary, perché le loro narrazioni sono lontane dalla retorica dell’essere “nati nel corpo sbagliato”.
Magari non sentono l’esigenza di una medicalizzazione, oppure si riconoscono nel genere non binario, oppure hanno un orientamento non conforme (uomini ftm gay, donne mtf lesbiche).
Se molto giovani, a volte l’approccio è, consapevolmente o non consapevolmente, “riparativo”. Se non si corrisponde allo “stereotipo” di persona transgender, si tenta un approccio conservativo, nella speranza che la persona “si accetti” come cisgender (cioè “non transgender”) e “faccia pace” col nome anagrafico.
La depatologizzazione delle persone transgender metterà la parola fine ai tentativi di conversione?
Non aiuta il fatto che la vita delle persone transgender e non binarie è ancora difficile a causa dello stigma che colpisce le persone con una tematica di identità di genere, soprattutto sul lavoro, e questo fa sì che molte famiglie, anche illuminate, si facciano condizionare da terapeuti che promettono “un passo indietro” da parte di un figlio o di una figlia.
Sarà sicuramente d’aiuto l’imminente depatologizzazione della condizione transgender, spiegata qui dall’attivista Laura Caruso.
«Transessualità, transgenerità e non conformità/incongruenza di genere non sono più patologie mentali per l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS). Infatti, durante la 72° Assemblea Mondiale della Sanità (WHA), in corso dal 20-28 maggio 2019, l’OMS ha ufficialmente adottato l’undicesima revisione della classificazione statistica internazionale delle malattie e dei problemi sanitari connessi (Icd-11), che entrerà in vigore il 1° gennaio 2022. A partire da tale data, l’incongruenza di genere rientrerà tra le condizioni della salute delle persona».
Terapisti e negazioni dell’identità di genere: conclusioni e speranze
Va fatta una riflessione: il trentennio d’oro delle terapie riparative è stato dalla morte di Freud (il quale sull’omosessualità aveva detto, ad una madre desiderosa di riparare il figlio: «l’omosessualità di sicuro non è vantaggiosa ma non c’è niente di cui vergognarsi, nessun vizio, nessuna depravazione, non può essere classificata come una malattia») ai moti di Stonewall, e questi ultimi hanno portato, pian piano, alla depatologizzazione del 1990.
Quindi, possiamo augurarci che la depatologizzazione della condizione transgender possa sferrare un colpo ai tentativi di “riparare” le persone con un’identità di genere non conforme.