Elaborare una filosofia della maternità, secondo Selena Pastorino, si può e si dovrebbe. In questa intervista, a partire dalla sua ultima pubblicazione, ci ha spiegato perché.
Dire filosofia, si sa, è dire un pensiero astratto, disincarnato, non compromesso in pericolose relazioni con gli altri e con il mondo. Che altro? In realtà molto, moltissimo altro: un pensiero, ad esempio, che si scopre – secondo molteplici punti di vista – frutto di un corpo. E che perciò alla corporeità ritorna, meditando attraverso di essa per interrogare e concettualizzare una delle relazioni più ineludibili per l’essere umano: la maternità. È questo il filo conduttore che emerge dall’ultimo lavoro di Selena Pastorino, Filosofia della maternità (Il Melangolo, 2021). Un saggio che è, anzitutto, un viaggio. Non solo quello di una donna che affronta l’esperienza meravigliosa e terrificante di diventare madre per la prima volta. Quello di una studiosa che, coraggiosamente, porta il pensiero a lezione dall’esperienza del corpo, sottoponendolo alla prova più sconcertante: quella della vita.
Dove approda questo viaggio? Per scoprirlo, abbiamo raggiunto in diretta Instagram Selena Pastorino. Mentre rimandiamo al nostro canale per l’intervista completa, ecco di seguito i punti salienti che abbiamo affrontato.
Mentre preparavo questa intervista, ho avuto modo di notare che tra amici e colleghi che si occupano di filosofia l’idea di una filosofia della maternità suscitava reazioni contrastanti. Non è mancata la curiosità; tuttavia, spesso si manifestava un certo scetticismo. Perciò, anzitutto, vorrei chiederti: perché in filosofia non solo si può ma anche si dovrebbe occuparsi di un tema come la maternità?
Selena Pastorino:
Di che cosa è opportuno o meno che la filosofia si occupi è una questione molto dibattuta. Personalmente, credo che la filosofia sia un metodo di studio della realtà, di riflessione e di conoscenza a proposito di essa. In quanto metodo, è applicabile a qualsiasi fenomeno o aspetto che ci sembri importante analizzare con gli strumenti che ci mette a disposizione. Può trattarsi di fenomeni relativamente nuovi, come un certo tipo di prodotti mediali, o qualcosa che ci riguarda da vicinissimo, come la corporeità. Del pensiero che nasce da una certa esperienza corporea mi ero già occupata prendendo in considerazione la danza, una disciplina che pratico da molti anni. Nel caso della maternità, poi, ho avvertito come particolarmente urgente affrontare quest’esperienza alla luce del discorso filosofico. Perché si tratta di un contesto in cui con grande evidenza il personale si fa politico.
La maternità è stata, tra tutte le esperienze corporee, forse quella che più la filosofia ha messo da parte: è stata vittima di una doppia rimozione. Infatti, la filosofia ha anzitutto messo da parte il corpo, contrapponendo l’astrazione e la razionalità – prerogativa maschile – alla corporeità – prerogativa femminile. Dopodiché, ha messo da parte il discorso della donna e di chiunque potesse generare/custodire la crescita di una vita. Appropriandosi del lessico materno, sì, ma portandolo su un piano puramente metaforico, da Socrate in poi.
Perciò, dedicarsi alla filosofia della maternità è una scelta che discende dall’esigenza di offrire un’alternativa a questa rimozione. Non solo in ambito filosofico, peraltro, ma entro gli spazi più ampi di una riflessione condivisa. Capace, si spera, di ridare linfa a un dibattito attivo alcuni decenni fa smarritosi per strada. Il suo raffreddamento ha fatto sentire accantonate anche persone che quotidianamente vivevano certi temi e certi problemi sulla propria pelle.
Nel tuo saggio ritorna spesso il tema della politicità del materno: in che senso e perché il materno è politico?
Selena Pastorino
In primo luogo, tengo a sottolineare che quando parlo di maternità non intendo in alcun modo fare riferimento soltanto a chi abbia vissuto la gestazione. Si tratta dell’esperienza di maternità che mi è più familiare, avendola vissuta in prima persona, ma voglio ricordare che è una tra le esperienze possibili. Non l’unica legittima.
In qualsiasi modo avvenga, però, l’esperienza di maternità non può prescindere da una assunzione di responsabilità nei confronti del figlio. Una madre si impegna a permettere e promuovere la crescita del figlio. Tale responsabilità, però, non è esclusivamente personale o familiare, come sempre di più si crede. Si tratta di una responsabilità socialmente condivisa. Un noto proverbio africano dice che per crescere un bambino occorre un intero villaggio. Dice bene: affinché la relazione tra genitori e figli funzioni, essi devono essere inseriti in un tessuto sociale che li sostenga. Questo, però, oggi non avviene nel contesto nel quale viviamo.
Ai genitori, infatti, si richiede una presenza inaudita nella vita dei figli. Tuttavia, non vengono forniti loro né informazioni né strumenti per soddisfare tutte le istanze. Perché non è solo richiesto loro solo di essere genitori impeccabili, ma anche parti instancabilmente attive del sistema produttivo e individui perfettamente realizzati. A tutte queste richieste, però, non corrisponde un’assunzione di responsabilità da parte della società e della politica. Ciò risulta evidente, ad esempio, dai dibattiti sui fondi destinati agli asili nido o sulla possibilità di un congedo parentale esteso fino ai tre anni.
Sostengo che il materno è politico perché, effettivamente, funziona come un nodo di tensioni attorno al quale emergono con forza le contraddizioni della nostra società. Contraddizioni che, per essere sanate, richiederebbero non solo la riflessione filosofica, ma anche un meditato intervento politico.
Il materno, d’altra parte, si configura come un campo non soltanto politico, ma anche fortemente narrato e narrativo. Che rapporto esiste, allora, tra maternità e narrazione?
Selena Pastorino:
Si tratta, piuttosto, di una trama di rapporti molto complessa. C’è sicuramente un aspetto limitante nella narrazione della maternità. Ma c’è anche un aspetto che può essere utilmente riappropriato dai soggetti che vivono questa relazione.
Personalmente, nel mio lavoro mi sono sforzata di riappropriarmi della mia narrazione del materno. Di ricostruirla, per approfondirne tutti i passaggi. Al tempo stesso, però, ho cercato di non scrivere questa storia anche per mia figlia. Ho ritenuto, infatti, che sarebbe stato un atto profondamente impositivo lo scrivere un testo in cui la raccontavo. Perché un testo è una struttura narrativa potente, che si conserva e, pubblicato, vive quasi un’esistenza propria. Credo sia giusto, essendo lei molto piccola, che abbia il diritto di appropriarsi autonomamente della sua narrazione nel corso della vita. Senza subire la mia, peraltro in modo sproporzionato, dato non è ancora in grado di prendere parola di fronte alla mia scrittura.
L’aspetto limitante cui facevo riferimento ha a che fare con questo, con il subire una narrazione di un certo tipo. Esiste, infatti, una narrazione imposta che colpisce, in misura diversa, un po’ tutte le madri. Essa varia di epoca in epoca e questa variabilità storica è un elemento che può aiutarci a vederla in prospettiva, distanziandocene. Però, quando si vive l’urgenza di instaurare un rapporto materno, essa agisce in modo molto forte. Questa narrazione, oggi, è quella della mamma perfetta, dedicata anima e corpo al figlio. E che dovrebbe vivere solo questa relazione, ridotta peraltro a un ruolo/una mansione cui essere adeguati. Ottemperando a imperativi contraddittori e portando sulle spalle il fardello degli eventuali fallimenti. Si tratta di una narrazione veramente molto tenace, che tende a sovrascriversi alle diverse componenti dell’identità individuale. E decostruirla, o quantomeno renderla lavorabile, non è semplice.
Riuscire a emanciparsene, però, come mi sembra di capire dal tuo saggio, è fondamentale per vivere appieno questa relazione.
Selena Pastorino:
Sì. Anche perché, come ho tenuto a sottolineare, mamme si diventa in molti modi e in molti momenti diversi, non necessariamente in corrispondenza dell’esperienza della gestazione. La maternità è una relazione che si vive e si costruisce passo dopo passo. Mi sembra importante ricordare che moltissimi studi, in ambito psicologico e pedagogico, evidenziano che la maternità non è in alcun modo un’esperienza normata. Contrariamente a quanto siamo abituati a pensare e ai termini che usiamo per parlarne. Diventano mamme, voglio dire, non solo persone eterosessuali, giovani, avvenenti, non disabili, medio-borghesi, sposate. I percorsi esistenziali attraverso i quali questa relazione può arrivare a instaurarsi sono molteplici e tutti ugualmente legittimi.
Ciò che accomuna questi possibili percorsi all’interno della relazione è, in particolar modo, l’elemento corporeo. La maternità è una relazione che implica il corpo. Non solo perché l’accudimento di un figlio richiede, in misura maggiore o minore, il fare un certo uso del proprio corpo. Cioè, per il fatto che ci si fa vicari dei bisogni fisici e correlati allo sviluppo intellettivo ed emotivo del bambino che sta crescendo. Anche – forse soprattutto – perché chiunque sia madre (e a qualunque titolo lo sia) vive questa relazione in modo profondo, direi viscerale.
Sostenere la crescita di un figlio, facendosi da parte quando serve per lasciarlo libero, significa anche avvertire questo legame dentro, con ogni fibra di sé. Rendendosi conto che il proprio corpo, in quanto madre, viene quasi subordinato alla protezione e alla cura del corpo del figlio. Non in senso sacrificale: dimenticarsi di sé è quanto di più deleterio si potrebbe fare nell’avere cura di un figlio. Nel senso, piuttosto, di un costante richiamo alla responsabilità che ci si è assunti nei confronti di quella vita che dipende dalla nostra.
Questo costante riferimento a una corporeità vissuta e agita in relazione all’altro e a sua tutela è davvero molto interessante. E mi sembra ricollegarsi a quel sapere incarnato che potrebbe aiutarci a superare il relegamento della corporeità al femminile e del femminile al materno. Superando, altresì, il paradigma che ancora resiste a proposito del rapporto mente-corpo. È corretto?
Selena Pastorino:
Sì. Mi è capitato, nel mio lavoro di ricerca, di toccare temi e fenomeni che evidenziavano come la distinzione mente-corpo come tradizionalmente strutturata non regga più. Questi due termini possono essere pensati, al più, come due poli lungo un continuum di esperienze su cui noi continuamente ci situiamo. Perché non siamo una cosa o l’altra, ma costantemente ci giochiamo nella relazione tra questi due elementi che la nostra cultura ha selezionato come determinanti.
Tutto ciò che passa per il corpo ci restituisce in maniera secondo me evidentissima e molto meglio di qualsiasi riflessione astratta quanto noi siamo corpo. Tutte le volte che abbiamo a che fare con il nostro corpo, ci rendiamo conto che, per dirla con Nietzsche, la nostra ragione è piccola. È davvero piccola, rispetto alla “grande ragione” del nostro corpo che va da sé, senza che la mente gli suggerisca cosa fare. Questo aspetto nell’esperienza della maternità è particolarmente evidente. Infatti, la sola forza della nostra mente non basta a stabilire se e quando il concepimento sia avvenuto. Né, tantomeno, a prendersi cura di un feto, durante la gestazione, e di un figlio già nato. Occorre passare per un tipo di legame e di esperienza che sono irrinunciabilmente corporei.
Per questo dico che l’esperienza della maternità è decisiva per ri-situarci nel nostro corpo. E non parlo necessariamente di una maternità o di una gestazione vissute in prima persona. Tutti, in qualche misura, abbiamo avuto una madre. Tutti siamo nati da una persona dotata di utero. Perciò, ritornare all’esperienza della maternità è ritornare a un’esperienza radicale, fondamentale. Per gettare luce sul luogo e sul processo rimossi in cui il nostro corpo, rimosso a sua volta, si è fatto. Iniziando, così, a recuperare la conoscenza della corporeità e del femminile, oltre che del materno.
Nel saggio parli dell’esperienza di diventare madre di tua figlia come dello sperimentare un nuovo baricentro nella tua vita. Qualcosa che, recuperando l’aforisma 341 de La Gaia Scienza di Nietzsche, renderebbe non solo accettabile ma perfino auspicabile il temibile pensiero dell’eterno ritorno. Perciò, da ultimo, vorrei chiederti: l’esperienza della maternità come ha cambiato il tuo modo di concepire la filosofia?
Selena Pastorino:
Sicuramente mi sento molto più radicata all’interno della realtà e del mio corpo, più incarnata. Come se, prima di questa esperienza, io fossi rimasta un po’ dietro le quinte rispetto alle cose reali del mondo. E adesso non potessi più evitare di assumermi le mie responsabilità nei confronti della realtà. Questo, naturalmente, ha delle importanti ricadute anche in ambito filosofico. La conseguenza forse più evidente è l’esigenza di ampliare la prospettiva. Diventando più consapevole, al tempo stesso, di dove si situi il mio punto di vista e di quali questioni questo posizionamento coinvolga.
Quella di maggiore portata, però, ha a che fare con una diversa comprensione della mortalità come carattere ineludibile dell’umano. Crescere e fare i conti con il divenire richiede, a un certo punto, un riconoscimento e una accettazione della propria mortalità. Ma diventare genitori richiede, forse, qualcosa di ancor più difficile, cioè l’accettazione della mortalità della vita che si è chiamati a proteggere. Tutelandola, cioè, senza porla sotto la proverbiale “campana di vetro”: lasciando i figli liberi di vivere, pur nel rischio che ciò comporta.
L’esigenza di stare – poiché è inevitabile – dentro una realtà così difficile e dolorosa da concepire ha in parte riorientato il mio interesse. Non solo come scrittrice, ma come studiosa e fruitrice di testi filosofici. Infatti, se prima privilegiavo riflessioni di carattere prevalentemente teorico, ora mi interessa molto anche un pensiero capace di offrire un orientamento nella complessità del reale. Un pensiero capace di indicare una direzione plausibile nella pratica. Avendo – come per me (anche se sembra paradossale) avviene con il pensiero di Nietzsche – un potenziale trasformativo autenticamente realizzabile nel contesto delle nostre esperienze concrete.
Valeria Meazza