Si legge nelle cronache di incidenti subiti da ciclisti a opera di automobilisti: riguardano quegli amanti delle due ruote che viaggiano in gruppo e costituiscono l’incubo dei guidatori, costretti a pericolosi sorpassi e rallentamenti per evitarli.
Sono numerosi i litigi tra le due categorie che hanno spesso portato a episodi in cui i motorizzati hanno investito i pedalatori, in alcuni casi volontariamente, provocando morti e feriti.
L’uomo è decisamente uno strano animale.
Se indossa i panni dell’automobilista ha fretta di arrivare e corre veloce; nel momento in cui scende dall’auto e sale sulla bici, lo assale fortissimo il bisogno di dissolvere lo stress dell’urgenza chiacchierando in compagnia e godendosi il panorama, dimenticando di essere su un’arteria trafficata.
Quando invece è pedone attraversa lentamente la strada, non in maniera perpendicolare ma con angolo molto acuto, guardando dritto negli occhi per comunicare con decisione ai mezzi di rallentare per poi girarsi porgendo la schiena.
Peccato che, quando è alla guida, tenda a lamentarsi di queste discutibili modalità per oltrepassare la via.
In ogni caso l’uomo si considera sempre il padrone della strada e pretende siano gli altri ad adeguarsi ai suoi ritmi.
Quando poi è in gruppo si sente investito di maggiore intraprendenza ed euforia che gli fanno scordare le regole dettate da prudenza e corretta convivenza.
Ci sono individui che, nel momento in cui si recano presso uffici pubblici e sono in fila, si lamentano della lentezza o poca disponibilità dell’operatore: ho però notato che talvolta le stesse persone, tolti i panni dell’utente e indossati quelli di chi si trova dall’altra parte dello sportello nel proprio posto di lavoro, non assumono il comportamento auspicato negli altri ma replicano quello criticato pochi attimi prima.
Come mai questa metamorfosi da far impallidire un camaleonte?
Nel caso dei ciclisti il dubbio è doppio perché l’atteggiamento sulla strada mette in pericolo prima di tutto la loro incolumità: non dovrebbe essere difficile comprendere che, nel caso di scontro tra un mezzo a quattro e a due ruote, a rimetterci siano loro.
Perché le persone sono così abili a cambiare ruolo dimenticando le sensazioni di quello precedente?
Si parla di empatia riferendosi alla capacità di mettersi al posto degli altri superando i personali interessi: significa ricordare i sentimenti nati da esperienze uguali o analoghe per comprendere l’altrui dolore, rabbia e difficoltà ma anche l’altrui gioia e spensieratezza.
L’uomo tende ad avere una visione ristretta della realtà limitandola al proprio giardino: ciò che si trova al di là della siepe non gli interessa. L’importante è che nello spazio dentro al proprio confine sia tutto a posto.
E’ come se ognuno disponesse di una sorta di anello che circoscrive lo spazio limitrofo: tanto più il cerchio è ampio, tanto più è in grado di vedere anche il terreno dei vicini, rendendosi conto delle diverse coltivazioni e delle relative esigenze.
L’individuo empatico è quello che sa che la strada è comune, che la velocità a piedi, in bici e in auto è differente, che la visibilità in curva è difficoltosa e cerca di agevolare gli altri… così come comprende l’altrui disagio, urgenza o voglia di rilassarsi e sorridere.
Qualcuno ha insegnato, un po’ di tempo fa, a comportarsi con gli altri come si vorrebbe facessero loro con noi.
L’etica della reciprocità è un principio presente in tutte le religioni ed è alla base dei principi di dignità, convivenza pacifica, giustizia e rispetto che costituiscono le fondamenta di ogni società che si definisce civile.
I concetti di libertà e uguaglianza sarebbero vuoti se non accompagnati da quello di reciprocità.
I diritti esistono accompagnati anche dai doveri. Due facce dell’identica medaglia.
Allargare il proprio anello permette di godere il personale giardino senza impedire agli altri di fare lo stesso.
Un invito che va ricordato a tutti: ciclisti, pedoni, automobilisti. Ma non solo…
Paola Iotti
da noi morirono in sette, falciati da una macchina.