Di Francesca de Carolis
E quanto è stata grande, palpitante, lì sul palcoscenico dell’auditorium del MAXXI, a Roma, l’emozione delle Donne del Muro Alto, le attrici della compagnia teatrale nata nove anni fa a Rebibbia, grazie alla regista Francesca Tricarico e all’associazione Ananke. Libere di portare fuori la loro voce, libere di raccontare e raccontarsi. Già, perché se il carcere è un muro che tutto inghiotte, e difficile è farne arrivare le voci, ancora più difficile, rarissimo, quando si tratta di voci di donne. Le donne… così “poche” rispetto al numero degli uomini, in un universo pensato tutto al maschile, ancora a subire una doppia discriminazione…
E invece eccole lì, a rappresentare uno spettacolo “scritto e fortemente voluto dalle attrici detenute e dalla regista per raccontare come l’amore, così come il teatro, può divenire, e forse lo è sempre stato, pretesto di altro, molto altro”.
Titolo: Ramona e Giulietta, sottotitolo Quando l’amore è un pretesto, particolarissima rilettura di Romeo e Giulietta, dove ad amarsi sono due donne. Argomento “scottante”, ma il testo racconta molto, molto di più. “Qui non siamo in una poesia di Shakespeare”, è una dolorante battuta, di un testo che sa anche avere momenti di dolce ironia. Ah, le donne…
“Ramona e Giulietta” è nata dopo che in un carcere italiano era stata celebrata la prima unione civile fra donne. Cosa che ha scatenato reazioni opposte, fra chi approvava il diritto all’affettività, comunque, e chi considerava inaccettabile questo “amore saffico”…
“Nelle sezioni -mi aveva raccontato Francesca- tra le donne con cui stavo lavorando, e non solo, l’atmosfera era tesa e c’era una rabbia che non avevo mai visto prima. Avevo la sensazione che da un momento all’altro la situazione potesse esplodere. Ho così deciso di iniziare un lavoro di ascolto proprio sulla rabbia, scoprendo infine che la tensione tra loro era dovuta all’eco di questa unione, alla divisione in corso tra chi sosteneva queste unioni e chi le rifiutava”.
E scrivendo, e lavorando, e confrontandosi, è stato possibile capire da dove nasceva tutta questa rabbia. Non dal “fastidio” per un amore lesbico, ma dall’impossibilità delle donne di avere relazioni con i loro uomini.
Ed è nato lo spettacolo…
Così “Ramona e Giulietta”, oltre la nascita di un profondo legame fra le due donne, racconta la terribile realtà di un mondo che nega la vita. Ci ricorda che l’affettività in carcere in Italia è negata. E provate a immaginare, brevi o lunghe che siano le detenzioni. Provate a immaginare, oltre alla pena della privazione della libertà, una pena nella pena che è negazione di una parte fondamentale della vita dell’individuo. Pensate a quale compressione del corpo e dello spirito. Cosa che, lo sapevate?, in Europa, accade solo in Italia.
E come non pensare, vedendo le attrici muoversi sul palco, che tutto questo l’hanno vissuto sulla propria pelle, come non fremere con loro e per loro, che qui nella finzione senza finzione raccontano.
Ancora le parole di Francesca Tricarico: “Il teatro in carcere non ha paura della verità o del giudizio perché queste donne sono già state giudicate”. Ed è un teatro che non ha paura del confronto in una società che sempre meno accetta la verità… Una bella lezione per tutti noi, che facciamo finta che il carcere non sia parte della nostra società. E che la violenza (perché è violenza negare alle persone l’affettività) è anche la nostra violenza. Così come la fame d’amore di quelle donne è anche la nostra fame d’amore.
No, non hanno paura della verità queste donne. E più di una volta, ad ascoltarle, mi sono commossa. Pensando al loro cammino, ora che attraversano la difficile fase del reinserimento fuori le mura del carcere. Pensando al loro forte impegno in questo lavoro, in questo teatro, che diventa per loro “ponte” con la società che troppo spesso le vuole respingere. Più di una volta mi sono commossa pensando che la verità che raccontano è anche la nostra. La restrizione, mi aveva spiegato Francesca Tricarico, semplicemente amplifica le cose, che il teatro mette a fuoco e amplifica a sua volta. Ed è qui ancora a parlare di noi.
Brave, le Donne del muro alto. Accompagnate dalle musiche di Giulia Anania. E perché nessuno rimanga nell’indistinto (già molto lo fa l’istituzione), voglio ricordarne i nomi: Bruna Arceri, Alessandra Collacciani, Annamaria Repichini, Sara Paci, Daniela Ion Sav, Raquel Robaina Tort.
Al MAXXI, questa settimana, nell’ambito del festival del cinema di Roma, è stata solo una tappa della prima tournée della compagnia di attrici, che tutte sono ex detenute e signore ammesse alle misure alternative alla detenzione della Casa Circondariale Femminile di Rebibbia.
Sarà, ne sono certa, un lungo cammino. E vi auguro di incontrarle. Pensando a quel che scrisse Goliarda Sapienza, finita per alcuni giorni in carcere per un furto in un momento di difficoltà:
“La mia esperienza è stata breve ma intensa. Non la rimpiango per niente. Anzi, ho fatto benissimo ad andarci. Perché lì dentro ci sono persone come sono io. Ma non io che ho rubato, cioè io anche se non rubavo. Persone dotate di una grande fantasia, bisognose di emozioni e piene del desiderio di superarsi. Persone forti, che mi hanno insegnato la solidarietà e il calore umano. Quello che fuori non ho trovato da nessuna parte”.