Anche nel weekend appena passato, gli imbecilli si sono fatti notare. Dalla serie A alla Ligat israeliana, episodi censurabili ci ricordano come negli stadi si nascondano ancora frange di tifo razzista e di estrema destra. A farne le spese sono le persone colpite ed i tifosi civili. Si riuscirà mai ad estirpare questa piaga?
Una doverosa premessa va fatta: non tutto il mondo del calcio è razzista. Anzi: come negli altri sport, ci sono esempi di inclusione e fratellanza; federazioni, associazioni e appassionati, da tempo cercano di lottare contro gli episodi di razzismo, in campo e fuori. Ma il solo fatto che ci si ritrovi a dover fare questo tipo di premesse, fa capire come la strada da fare sia ancora lunga. Calcio e razzismo, purtroppo, vanno ancora troppo spesso a braccetto. E ogni domenica accadono episodi ributtanti che ci ricordano quanto il razzismo legato alle destre intolleranti trovi albergo tra le tifoserie calcistiche.
L’ultima frontiera del razzismo: tifare contro i propri giocatori
Questa mattina sul quotidiano Haaretz è comparso un editoriale in cui, senza mezzi termini, si afferma che il gruppo di tifo organizzato La Familia deve essere messo fuorilegge.
This space is too small for a complete survey of La Familia’s acts of violence, racism and nationalism. – Questo spazio è troppo poco per una lista completa degli atti violenti, razzisti e nazionalisti de La Familia.
Haaretz, 20/10/2021
Sempre l’editoriale su Haaretz spiega che ‘i tifosi [del Beitar] che rifiutano di sottostare al codice razzista de La Familia la pagano a caro prezzo’. Già, perché questa frangia estremista del tifo organizzato non guarda in faccia nessuno. Chiama orgogliosamente il proprio club “il più razzista di tutti” e si identifica in slogan del tipo “Puri per sempre” (come il titolo del documentario di Netflix che racconta la sua storia). Le sue violenze vengono perpetrate contro gli avversari, ma anche contro gli altri tifosi del Beitar, rei di non essere “puri” come loro. In passato hanno preso d’assalto persino uno shop del club, perché vendeva gadget e souvenir che non rientravano nei loro codici di “purezza”.
Calcio e razzismo: storie di ordinaria follia al Bloomfield Stadium
Non stupisce perciò quello che è successo domenica allo stadio di Gerusalemme, quando, durante l’intervallo dagli spalti sono arrivati applausi per il neoacquisto Kamso Mara, che si stava scaldando per entrare in campo. Guineano e musulmano, Mara non è un giocatore che per La Familia possa far parte della squadra di Gerusalemme. Ma manifestare il proprio disappunto – già di per sé un’azione condannabile – non basta a questi tifosi dell’ultra-destra: si sono perciò scagliati con violenza contro gli altri tifosi che stavano applaudendo il giocatore, intimando loro di smetterla. A quelli che non si sono piegati al “codice d’onore” razzista, sono toccate le botte. Ne ha fatto le spese anche una tifosa in sedia a rotelle, gettata in terra e insultata.
Un vero e proprio pogrom contro i tifosi della propria squadra, finito – come già altre volte – con diversi feriti che hanno dovuto ricorrere alle cure degli ospedali. E dire che Mara, appena arrivato, aveva dichiarato “Qui ci sono un grande stadio e dei tifosi fantastici”: ha imparato, a proprie spese, che non tutti purtroppo lo sono.
Da Gerusalemme a Roma: i guai di Lotito
Il proprietario del Beitar, Moshe Hogeg, esasperato dalla situazione, ha messo in vendita il club. Difficile però trovare acquirenti disposti ad accollarsi una situazione così incandescente. Il presidente della Lazio Claudio Lotito, non ha invece in progetto la vendita del club, nonostante i rapporti conflittuali con la tifoseria. Questioni sportive, più che ideologiche, anche se in passato il patron ha preso le distanze dalle frange di estrema destra che abitano la curva laziale – e che gli sono già costate diverse multe e procedimenti da parte di UEFA e FIGC.
Il falconiere fascista…
Una cosa va detta subito e chiaramente: la società Lazio ha preso le distanze da quanto accaduto nel dopo partita di Lazio-Inter, giocata domenica all’Olimpico. E in un comunicato ufficiale ha precisato che Juan Bernabé – peraltro non dipendente della società – con il suo comportamento ha offeso la società e i tifosi e non è più persona gradita sul campo di gioco. Il gesto del falconiere aveva immediatamente suscitato lo sdegno delle comunità ebraiche e la risposta della società non si è, fortunatamente, fatta attendere.
Anche tanti tifosi laziali, attraverso i social, si sono indignati e dissociati da questo episodio.
Le immagini di quanto accaduto sono comunque gravissime e hanno già fatto il giro del mondo. Si vede il falconiere, con l’aquila Olympia sul braccio sinistro, mascotte della squadra che viene fatta volare dopo ogni partita giocata in casa, che si rivolge alla tribuna. Sorridente, si produce nel saluto romano, mentre dagli spalti ricambiano con il coro “duce, duce”.
…e il tifoso razzista
Ecco: se quanto accaduto in campo è rapidamente risolvibile con una nota, altra questione è quello che accade sulle tribune. Il coro “duce, duce” è semplicemente un’altra espressione di quella componente del tifo legata all’estrema destra romana che fa di fascismo e razzismo le proprie ideologie. Così come altri comportamenti, slogan e striscioni che hanno in varie occasioni contraddistinto in negativo la curva laziale. Non ultimi, gli insulti rivolti al proprio giocatore, Hysaj, “reo” di aver cantato Bella ciao.
In un altro video subito riproposto in rete, si vede chiaramente un tifoso alle spalle del giocatore olandese dell’Inter Dumfries che gli rivolge buu e versi razzisti. Il tifoso rischia un meritato DASPO – l’interdizione a frequentare gli stadi – ma per uno che viene squalificato, altri continueranno a frequentare gli stadi. Tutti gli stadi, non solo l’Olimpico – beninteso. Allora, in casi come questo, al presidente Lotito si potrebbe chiedere di essere netto come per la questione falconiere. Senza lasciarsi andare a dichiarazioni che lasciano spazio a giustificazioni fuori luogo, come gli è invece successo in passato. Calcio e razzismo sono un binomio che dev’essere separato con chiarezza.
Ovviamente, fino a quando sul campo ci saranno individui come Bernabé – ma anche giocatori importanti che fanno dello shit-talking e della provocazione anche razzista una delle loro armi preferite – sarà difficile estirpare il razzismo dalle tribune.
Fuorilegge i gruppi razzisti?
Questo è l’invito che fa l’editoriale di Haaretz. D’altra parte è abbastanza chiaro che la situazione vada affrontata in maniera decisa, a livello di autorità: non possono essere i club a incaricarsi interamente di un problema che non riguarda solo gli stadi. Organizzazioni come La Familia agiscono al pari di gruppi terroristici e ricordano, tristemente, i gruppi ultras della Stella Rossa, che agli ordini della tigre Arkan (a cui una frangia del tifo laziale dedicò uno striscione) ebbero un ruolo di primo piano negli eccidi e nelle violenze durante la guerra dei Balcani. E i gruppi ultras italiani legati all’ultra destra sono parte attiva – purtroppo – della vita politica del nostro paese. Mescolati a proteste e piazze che nulla hanno a che fare con il calcio, con slogan violenti e razzisti.
Secondo uno studio dell’università Ben Gurion di Gerusalemme, La Familia gode di appoggi politici e trova delle sponde favorevoli anche all’interno del club. Quantomeno, la loro esistenza è tollerata. Si chiude un occhio, perché a qualcuno fa comodo. Lo stesso si può probabilmente dire dei gruppi di tifo organizzato legati all’estrema destra in Italia. Mascherano con il velo della passione calcistica qualcosa che con lo sport non ha nulla a che fare, e fanno il lavoro sporco. Fino a quando questo sarà tollerato? Fino a quando calcio e razzismo (e fascismo) potranno mescolarsi più o meno impunemente?
Ben vengano i DASPO e le prese di distanza, ma fino a quando le parole dette dalla politica devono essere chiare in proposito. Come si chiede che lo siano nei confronti di Forza Nuova, altrettanto dev’essere fatto con l’estremismo ultras. Altrimenti continueremo a fare i conti – ogni maledetta domenica – con episodi vergognosi come quelli appena raccontati. Mentre quello che vogliono gli appassionati è che calcio e razzismo non siano più ospitati sotto lo stesso tetto.
Simone Sciutteri