Avete presente il film Disney Pixar “Inside Out”? Parla di Riley, la piccola protagonista della pellicola che guidata dalle proprie emozioni Gioia, Paura, Rabbia, Disgusto e Tristezza, che vivono nel centro di controllo della mente, affronta i propri problemi e la vita di tutti i giorni. Ecco, queste cinque emozioni sono dette di base o primarie e, come possiamo notare, il rapporto di positività è sbilanciato: una emozione ‘positiva’ a quattro ‘negative’.
Con l’espressione ‘positività tossica’ si intende un atteggiamento, un modo di fare e di pensare, orientato al benessere a tutti i costi e in ogni momento della vita.
Un atteggiamento di invalidazione o di rifiuto delle emozioni negative provate da noi stessi o dagli altri è quindi innaturale… nel senso che è letteralmente contro la natura umana.
Bisogna imparare, o re-imparare, ad accettarsi e ad accogliere ciò che proviamo. Ogni emozione ha una funzione ben codificata e se, evoluzionisticamente parlando, possediamo ancora queste cinque emozioni, c’è un motivo: svolgono un’importante compito di promozione della sopravvivenza. Reprimerle ci farà avere paura delle emozioni e ci farà sentire sbagliati. Non accettarle vuol dire che all’emozione di base negativa si aggiungono ulteriori emozioni negative, creando un effetto amplificatore e prolungando lo stato d’animo negativo.
Oltre al danno, la beffa: ignorare le emozioni negative ci potrebbe distogliere dalla risoluzione del problema che l’ha generata. Ed è del tutto inutile: prima o poi, verrà comunque a galla.
Il mondo in cui viviamo, la pervasività dei social in cui vediamo solo immagini di perfezione e positività costante, sicuramente contribuisce a creare una visione distorta della realtà – di perpetua felicità degli altri – che ci fa sentire spesso soli anche in mezzo alla folla.
Qual è allora la differenza tra pensiero positivo e positività tossica?
Il pensiero positivo è l’atteggiamento positivo di una persona che però non rinnega le difficoltà e gli ostacoli che si possono incontrare lungo il percorso. Chi pensa positivo, non crede che possa essere sempre tutto bello o perfetto, ma procede per la sua strada con autenticità mettendo in conto che, nel frattempo, qualcosa potrebbe andare storto, perché fa parte della vita, ma che possa anche essere superato.
Avete presente quando ci dicono: “non fare così”, “non essere triste”, “vedrai, andrà tutto bene!”? È positività tossica. Ma perché non dovremmo piangere o essere tristi, se ne abbiamo motivo? Anche il vedere sempre su Facebook o Instagram persone estremamente felici e solo felici, come se fosse la normalità, è positività tossica.
Pretendere dal proprio figlio, dal proprio compagno o dipendente la positività a tutti i costi non produrrà altro che una Società di bloccati… di repressi frustrati e incapaci di esprimere o di gestire le proprie emozioni. Esattamente in contro-tendenza rispetto a tutti i bellissimi corsi di mindfulness che vanno tanto di moda oggi in azienda.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che, nel mondo, oltre 280 milioni di persone soffrano di depressione e che i sintomi di oltre la metà sono iniziati a partire dai 14 anni. Addirittura, il suicidio è la quarta causa di morte tra i giovani dai 15 ai 29 anni.
Quali possono essere quindi le conseguenze della positività tossica?
Imparare a non avere fiducia in sé stessi e a mettere in dubbio quello che si prova o a reprimerlo. Imparare a credere che quello che sentiamo non è giusto, che è sbagliato o che non è importante. Eppure, dovremmo domandarci: chi decide che quello che proviamo non sia importante?
Le emozioni sono fondamentali: ci guidano. Ci aiutano a capire che una situazione frustrante in cui ci troviamo non è giusta e che è ora di reagire (rabbia), incoraggiano le azioni positive (gioia), evitano sforzi inutili quando siamo temporaneamente incapaci di agire (tristezza) e, ancora, ci fanno rifiutare stimoli tossici (disgusto) o stimolano la fuga da situazioni potenzialmente pericolose (paura). In sintesi, ognuna ha la sua importanza e funzione.
Dobbiamo imparare ad accettarle. Dobbiamo imparare ad ascoltarci.
C’è un sacco di gente che frequenta l’università e impara a leggere Virgilio e a cavarsela con i misteri del calcolo senza mai preoccuparsi di scoprire come funziona la mente (“Come trattare gli altri e farseli amici” di Dale Carnegie, 1936).
Giulia De Vendictis