Lo scorso 6 Giugno, un rombo di motori fiammanti squarciava il silenzio del piccolo comune di Arzano, in provincia di Napoli.
Un vento caldo, misto ad odore di olio bruciato, si alzava dietro un corteo di macchine di lusso che percorreva la strada che da Arzano porta a Frattamaggiore.
Tra tutte, una Ferrari decapottabile, rossa come non mai, rubava la scena.
Alla guida c’era Pasquale Cristiano, noto pregiudicato ai vertici del gruppo della 167 ed appartenente al clan degli scissionisti Amato-Pagano.
Quasi inenarrabile lo sfarzo delle automobili noleggiate per celebrare la prima comunione del figlio, tenutasi poco prima. Una trovata plateale per confermare, al contempo, il proprio potere sul “suo” territorio, ma che, con ironica sorte, lo ha costretto a ritornare in carcere.
Il boss era infatti detenuto agli arresti domiciliari, dopo la condanna a 8 anni per racket, ma la Corte di Appello di Napoli gli aveva concesso il permesso di partecipare alla cerimonia del figlio. Solo alla celebrazione e non ai festeggiamenti.
La violazione di tale limitazione ha costretto i Carabinieri di Arzano ad intervenire e riportarlo in cella.
Apparentemente, sembrerebbe che qui la giustizia abbia trionfato, certo, ma solo se si dimentica che Pasquale Cristiano, da imputato per il duplice omicidio Casone-Ferrante, grazie all’abilità dei suoi avvocati, è riuscito ad essere condannato, con rito abbreviato, soltanto per due episodi estorsivi.
Totale della pena: 8 anni di reclusione, ridimensionata a 5 in appello. Da qui i domiciliari e la scorribanda in Ferrari.
Viene spontaneo chiedersi se davvero sia questa la giustizia.
In pratica, la legge permette la cancellazione di un reato di omicidio per delle criticità negli atti processuali, sorvolando del tutto sulla propria responsabilità di lasciare un potenziale criminale allo sbaraglio. Incredibile, ma vero.
A questo punto, mi viene in mente Raffaele, il piccolo boss in divenire, e al suo unico tema svolto: la parabola della fine del mondo.
Sono, infatti, proprio di Arzano i bambini protagonisti del famoso libro “Io speriamo che me la cavo”, del maestro Marcello D’Orta, che in esso raccoglie circa 60 dei loro compiti in classe. Il più celebre, quello di Raffaele, appunto, è la descrizione del giorno del Giudizio Universale e della giustizia divina che finalmente dividerà i buoni dai cattivi: i primi rideranno e i secondi piangeranno. “Io speriamo che me la cavo” è la frase ad effetto con cui chiude il suo svolgimento.
In questo originale racconto non si scorge soltanto l’inconsapevole ironia di un bambino cresciuto in una difficile periferia del sud Italia, con la quale descrive le anime “furbacchione” che cercano di passare nella porta del Paradiso, ma soprattutto la sottile e commovente speranza di un intervento dall’alto che rimetta le cose a posto.
Da questo libro si evince come sia facile diventare un criminale in questi posti e anche se è stato scritto nel 1990, non meraviglia affatto che, ancora oggi, un uomo come Pasquale Cristiano ritenga che violare platealmente le regole imposte dalla magistratura sia l’adeguata celebrazione del Sacramento del figlio.
Quello che meraviglia, sia nel libro che nella realtà di oggi, è l’”onnipresente assenza” dello Stato e delle sue istituzioni in questi territori, perché il vero problema non è la consueta sfrontatezza di un boss emergente, bensì la sua fonte, le sue origini, la sua radice.
Ad Arzano nessuno vuole fare il Sindaco: le minacce di morte, o gli inseguimenti intimidatori dei funzionari e le bombe carta presso le sedi della stampa locale sono all’ordine del giorno in un comune che si è più volte sciolto per condizionamenti mafiosi.
Sembra impossibile riuscire a ripristinare la legalità in questi territori, ma anche qui mi viene in mente il libro di D’Orta. Questa volta, nella sua versione cinematografica di Lina Wertmuller, in cui il maestro Sperelli, “o professor’, interpretato da un leggendario Paolo Villaggio, da a tutti una lezione di vita.
Lui, di origine ligure, era finito ad insegnare nell’entroterra napoletano a causa di un errore burocratico. Da subito era stato disprezzato e contrastato sia dagli alunni che lo vedevano diverso e amavano ridicolizzarlo, sia dagli stessi funzionari della scuola che erano soliti gestirsi con “regole” proprie, difficili da far accettare al nuovo arrivato dal settentrione. Ebbene, grazie all’amore e alla dedizione al suo mestiere, Sperelli riesce ad avere la pazienza e la tenacia che lo porteranno a farsi accettare ed anche a riuscire a cambiare alcune di quelle “regole”.
Non ha mollato, pur tra mille difficoltà, a volte davvero insormontabili, ha continuato a rendere il suo servizio e anche quando ha dovuto trovare qualche compromesso, non ha mai smesso di educare. In questo modo, riesce a far breccia nel cuore di tutti, soprattutto dell’irrimediabile Raffaele.
Anche se, all’ultimo, dovrà tornare al nord, si scorge comunque il lieto fine nella fiducia dei frutti del suo insegnamento.
Essendo, questo, un film che si discosta poco dalla realtà, una speranza la lascia davvero.