Di Angelo Schillaci
Tra le previsioni contenute nel ddl Zan, l’estensione delle tutele penali previste dalla legge Mancino occupa il dibattito in maniera pressoché esclusiva, sebbene non si tratti dell’unico ambito di intervento messo in campo dalla proposta di legge: accanto ad essa, infatti, il ddl prevede incisive misure di prevenzione e concreto sostegno delle persone che subiscano discriminazione o violenza per motivi legati all’orientamento sessuale e all’identità di genere.
Il ddl Zan prevede, come noto, l’estensione degli articoli 604 bis e 604 ter del Codice penale alle condotte motivate da sesso, genere, orientamento sessuale e identità di genere della persona offesa.
L’articolo 604 bis del Codice penale prevede quali reati la propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico nonché il compimento di atti discriminatori o violenti per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, assieme all’istigazione a commettere tali atti. Di queste fattispecie di reato, il ddl Zan estende unicamente la seconda e la terza (assieme alla corrispondente fattispecie di associazione finalizzata all’incitamento alla discriminazione o alla violenza per i medesimi motivi) alle condotte motivate dal sesso, dal genere, dall’orientamento sessuale, dall’identità di genere e dalla disabilità della vittima, lasciando intatta la fattispecie di propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico. Accanto a tale intervento, come accennato, viene estesa anche l’aggravante prevista dall’articolo 604 ter: si tratta di una aggravante a effetto speciale che aumenta la pena prevista per altri reati, ove questi vengano commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso. Anche in questo caso, l’applicazione dell’aggravante viene estesa ai reati fondati su sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere o disabilità della persona offesa.
Dunque, l’obiettivo di reprimere i crimini fondati sull’odio verso una condizione personale della vittima viene perseguito attraverso l’estensione di norme già esistenti da molti anni. Bene protetto dalla norma penale è – come rivela la stessa lettera del codice – l’uguaglianza, in una duplice dimensione. Da un lato, l’uguaglianza intesa come pari dignità di ogni persona nell’affermazione della propria insopprimibile e differente identità; dall’altro, l’uguaglianza intesa come principio di struttura della comunità politica, cui orientare – se necessario – la stessa tutela penale rispetto a comportamenti che con tale principio si pongano in aperto contrasto.
Due le principali obiezioni che vengono mosse a tale intervento.
Si afferma, anzitutto, che non sarebbe necessario introdurre nuovi reati per tutelare le persone che subiscono violenza di matrice misogina, omolesbobitransfobica o abilista, in quanto sarebbero a tal fine sufficienti le norme già esistenti. Perché, in altri termini, punire in modo diverso le condotte che colpiscono donne, persone LGBT+ o persone con disabilità? Sono forse persone “più uguali” delle altre? La risposta è semplice, e già implicita nell’originaria finalità della cd. legge Mancino. Ovvio, infatti, che già esistano nel nostro ordinamento norme che tutelano ogni persona da atti di aggressione fisica o verbale. Quel che manca è il riconoscimento della particolare gravità di condotte che colpiscano – con atti o parole – una persona esclusivamente sulla base di ciò che quella persona è, di una condizione personale che è espressione della sua (pari) dignità. Quando ciò accade, ad essere colpita è anzitutto quella persona: allo stesso tempo, però, il messaggio di violenza raggiunge tutte e tutti coloro che condividono quella condizione personale e, a ben vedere, l’intera comunità politica. Su questo sfondo si colloca l’obiettivo del ddl Zan, che non è certo introdurre una sorta di “inviolabilità” o tutela rafforzata per alcune categorie di persone; molto più semplicemente, si tratta di riconoscere che sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere e disabilità sono aspetti della personalità ricchi di valore per l’individuo e per la comunità e che, come tali, meritano di essere protetti da crimini motivati esclusivamente dall’odio verso di essi. Ecco perché non è sufficiente invocare le tutele già esistenti, ad esempio richiamando l’aggravante comune legata ai motivi futili o abietti: ad essere in gioco, in questo caso, è qualcosa di più specifico, cioè la pari dignità sociale – l’eguaglianza – di condizioni personali cui deve essere riconosciuta la possibilità di esprimersi in libertà e sicurezza, al riparo dall’odio. Odio che peraltro, in questa prospettiva, non è considerato in quanto “sentimento”, bensì come punto terminale di una dinamica strutturale di umiliazione e subordinazione di alcune soggettività nello spazio pubblico.
D’altra parte, i cd. reati d’odio hanno una ben precisa specificità sul piano criminologico in quanto mettono a rischio – assieme alla dignità delle persone – gli stessi equilibri della convivenza in una società pluralista e aperta al valore delle differenze.
In questa stessa prospettiva può allora essere affrontata la seconda obiezione che viene mossa all’intervento penalistico proposto dal ddl Zan, vale a dire l’eccessivo sacrificio che esso comporterebbe per la libertà di espressione, punendo anche l’istigazione alla discriminazione e alla violenza (la propaganda di idee, come accennato, non viene invece toccata). Anche in questo caso, la risposta alle obiezioni è immediata e discende dal sistema dei limiti alla libertà di manifestazione del pensiero. In una democrazia costituzionale, infatti, la libertà di manifestazione del pensiero – che pure è pietra angolare dello spazio pubblico – non può essere priva di limiti. Ai nostri limitati fini, è sufficiente ricordarne due tipologie. Anzitutto, i limiti volti a preservare la pacifica convivenza: si pensi, ad esempio, al reato di istigazione a delinquere, o alla pubblica apologia di delitti. In entrambi questi casi, effettivamente, una modalità espressiva è penalmente repressa ma ciò è giustificato – come ritenuto dalla stessa Corte costituzionale – per prevenire il compimento di reati e dunque garantire una convivenza pacifica e ordinata. In secondo luogo, si può ricordare il limite che deriva – per la libertà di espressione – dalla tutela dell’onore e della dignità altrui: e si pensi, in questo caso, al reato di diffamazione il cui oggetto è, appunto, una opinione idonea a ledere l’altrui onore. Limite alla libertà di espressione giustificato, anche in questo caso, dalla stessa Corte costituzionale. Allo stesso modo operano i reati di istigazione previsti dalla legge Mancino, punendo le manifestazioni di pensiero idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti. Un punto di equilibrio, insomma, tra tutela della libertà di espressione e protezione della dignità personale da discriminazione e violenza, già codificato dalla giurisprudenza e puntualmente ripreso dall’articolo 4 del ddl Zan.
In questo modo, il riconoscimento e la protezione di aspetti della personalità vengono tenuti in equilibrio con la convivenza tra diverse visioni del mondo e della vita, con l’unico limite della punizione di opinioni non soltanto fondate sull’odio strutturale ma concretamente idonee a pregiudicare la possibilità stessa della convivenza tra differenze.
“Punire l’odio”, in questo senso, non significa regolare la circolazione delle idee nello spazio pubblico, né limitare gli spazi del libero confronto democratico in una società pluralista: significa soltanto riconoscere la dignità delle persone, proteggendole da forme d’odio che hanno il solo obiettivo di colpirle, marginalizzarle o addirittura cancellarle.