Abbiamo chiesto a Romana Rubeo, giornalista di Palestine Chronicle, di aiutarci a capire il contesto che ha portato all’operazione “Guardiani delle Mura”. I bombardamenti israeliani hanno colpito la Striscia di Gaza per undici giorni, fino all’arrivo del cessate il fuoco nelle prime ore di venerdì 21 maggio.
La miccia da cui è partito tutto è la questione delle espulsioni forzate dei palestinesi dal quartiere Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est. Non è una questione scoppiata negli ultimi giorni, ma una minaccia che sta andando avanti da anni. Vorrei chiederti di fare un po’ di chiarezza sulla questione delle espulsioni, ma anche su chi sono i coloni e qual è il loro ruolo nel conflitto.
Queste abitazioni che appartengono da anni a famiglie palestinesi sono oggetto di una contestazione legale tutta interna allo stato di Israele. Il quadro normativo israeliano avalla questi espropri forzati, ma in realtà è ritenuto illegittimo da parte del diritto internazionale. Infatti già il 10 marzo c’era stato l’appello di una decina di organizzazioni per i diritti umani che chiedevano agli organi competenti di intervenire sui quartieri di Sheikh Jarrah e Silwan. Ricordiamo che Gerusalemme Ovest è a maggioranza israeliana, mentre Gerusalemme Est in teoria sarebbe di competenza palestinese. Ma in realtà Gerusalemme Est è occupata perché Israele, con una decisione unilaterale e non riconosciuta dal diritto internazionale, ha annesso quel territorio.
Il quadro complessivo internazionale non ha favorito la risoluzione di questa situazione. Nel 2017 l’amministrazione di Donald Trump ha deciso di riconoscere unilateralmente Gerusalemme come capitale di Israele, spostando lì l’ambasciata statunitense. Questo non era mai avvenuto perché Gerusalemme aveva uno status speciale, era rimasta addirittura fuori dalle trattative per gli accordi di Oslo.
A febbraio la Corte Suprema israeliana ha respinto l’appello delle famiglie palestinesi legittimando le associazioni di coloni a prendere i diritti di proprietà su quelle abitazioni. È stata anche avanzata un’offerta per cui le famiglie palestinesi avrebbero perso i diritti di proprietà ma sarebbero rimaste come affittuarie di queste associazioni di coloni. Chiaramente “l’offerta” è stata respinta. Questa operazione illegittima di esproprio forzato e di displacement (sfollamento) ha condotto ovviamente a delle tensioni. Ci sono state manifestazioni e proteste, peraltro proprio durante il mese di Ramadan, che sono state represse brutalmente e in cui si è vista anche la partecipazione dei coloni.
Questi ultimi hanno un’importanza sempre più preponderante nella politica israeliana. Costituiscono una sorta di braccio armato, sono quasi delle organizzazioni paramilitari: sono armati, arrestano i cittadini palestinesi. Inoltre qualche giorno prima c’era stata la marcia su Gerusalemme da parte degli estremisti ultranazionalisti, che nel loro programma politico prevedono proprio l’eliminazione della componente palestinese. Possiamo considerarli come il climax dello spirito coloniale di Israele che prevede l’annullamento dell’Altro.
In questa situazione così tesa, nell’ultimo venerdì di Ramadan c’è stata l’invasione da parte delle forze israeliane della Moschea di al-Aqsa, terzo luogo sacro dell’Islam. La presa di Gerusalemme ha un valore simbolico che non possiamo trascurare. C’è stato infatti un ultimatum da parte della resistenza: “se non vi ritirate da Gerusalemme ci sarà un lancio di razzi”. Questa situazione poteva essere gestita in tanti modi ma Netanyahu ha scelto la linea più dura attraverso i bombardamenti. Peraltro subito prima dei razzi c’era stato già un bombardamento per un singolo razzo lanciato dal PFLP, che è una forza socialista. Sulla stampa c’è questa contrapposizione tra Israele e le forze islamiste, ma in realtà si tratta di un esercito contro un popolo che non ha un esercito, ma diversi gruppi di resistenza, che in questo momento sono uniti.
Proprio a proposito di questa compattezza, ci sono state molte manifestazioni e proteste che hanno unito tutti i palestinesi nei diversi territori, da Gaza alla Palestina storica, come lo sciopero indetto il 18 maggio. Cosa mostra e quali conseguenze ti aspetti da questa situazione?
C’è un elemento inedito: l’unione di tutto il popolo palestinese, nella Cisgiordania, a Gaza e nei territori della Palestina del 1948 (attualmente Israele). Questo movimento era già in fermento da qualche tempo. Nelle città della Palestina del 1948 si registrava una reazione a quella che l’associazione B’Tselem e l’ONG Human Rights Watch hanno definito una condizione di apartheid che Israele impone in tutti i suoi confini. C’erano state manifestazioni anche simili a quelle del Black Lives Matter, che denunciavano le violenze della polizia su base razziale. Ricordiamo che i palestinesi di Israele sono trattati come cittadini di serie B e questo sistema di segregazione è stato istituzionalizzato da Israele nella Nation State Law, che parla di stato ebraico e divide i cittadini a seconda della religione e della loro etnia.
Ovviamente Gaza è sempre molto solidale: quando sono scoppiate le proteste a Gerusalemme anche i gazawi sono scesi in piazza. Lo sciopero generale di martedì è stato invece una novità: c’è stata proprio un’unione dei lavoratori che hanno fatto fronte comune contro questa ennesima aggressione. Quello che personalmente noto come analista è che questa unità non sia una risposta soltanto contro Israele ma sia anche un superamento dei balbettii della classe dirigente palestinese.
Mi sembra di intravedere un nuovo scenario che mette fine alla fase post-Oslo, che aveva visto una “normalizzazione” dell’occupazione, un soffocamento della resistenza con quella che è stata definita una cooperazione per la sicurezza, ma che di fatto era una forma di collaborazione con la forza occupante.
A Gaza la resistenza era rimasta attiva perché dal 2006 è governata da Hamas ed è proprio questo che ha determinato l’imposizione del blocco da parte di Israele. La prima apertura in tal senso c’era stata con la Grande Marcia del Ritorno, iniziata il 30 marzo 2018 e protratta per due anni con un costo elevatissimo di vite umane dei gazawi e di feriti che ancora oggi stanno oberando gli ospedali. Questa marcia segna la volontà di una resistenza popolare che travalichi i confini, proprio in nome del diritto al ritorno che unisce i palestinesi non solo all’interno dei confini ma anche al di fuori.
Da quel momento si è aperta una nuova fase, il cui fermento viene raccolto oggi. E in questo senso questo movimento travalica e supera sul campo le decisioni dei politici palestinesi della fase di Oslo. In questo momento c’è un fiorire di analisi sull’apertura di una Terza Intifada. Non voglio lanciarmi in questo tipo di interpretazione, ma si tratta sicuramente di una fase diversa da quelle che l’hanno preceduta.
Secondo lo storico israeliano Ilan Pappé, “la principale causa del conflitto è l’incapacità di Netanyahu di formare un nuovo governo”. Pensi che possa trarre beneficio da questa operazione sulla Striscia di Gaza?
Sono molto d’accordo con Ilan Pappé. Netanyahu è sicuramente all’origine di questa crisi: si poteva scegliere di agire in vari modi e lui ha scelto quello più cruento. Netanyahu ci ha abituato a questo forzare la mano, soprattutto su Gaza ma anche nella West Bank, nei momenti di difficoltà. Questo è sicuramente il momento più difficile della sua carriera politica perché, oltre ad essere sottoposto a vari procedimenti giudiziari, deve anche guardarsi dai suoi avversari ed ex-alleati. La risposta di Netanyahu testimonia anche la situazione della politica israeliana, che è sempre più schiacciata su posizioni di estrema destra, sempre più impigliata nelle trame della sua natura coloniale.
Questa volontà viene proprio esplicitata dal capo dell’opposizione Yair Lapid che parlando con Benny Gantz dopo le elezioni di marzo sostiene che qualora Netanyahu vedesse che il governo “gli sfugge dalle mani” avrà una reazione violenta contro i palestinesi. Ricordiamo che in questo momento Netanyahu è sì il Primo Ministro, ma di un governo transitorio. In questo momento c’è un mandato esplorativo che è passato in secondo piano, che è stato affidato a Lapid.
Quindi Netanyahu aveva tutto l’interesse a creare una situazione di emergenza, che richiedesse un governo forte: qualunque cosa potesse tenerlo al potere. Era stato addirittura disposto a concedere a Naftali Bennet di fare il Primo Ministro per un anno, negoziando la propria immunità. Ma questi tentativi sono andati a vuoto e Netanyahu ha fatto di tutto per far partire questa crisi. Ora l’impressione è che questa crisi gli sia sfuggita di mano, perché la risposta del popolo palestinese è stata particolarmente determinata e decisa.
Anche in Palestina la situazione politica è estremamente fragile. Proprio in questo periodo avrebbero dovuto esserci le elezioni parlamentari e presidenziali, che sono state però rimandate. Qual è il quadro della situazione e della leadership in questo momento?
Le principali forze politiche palestinesi sono queste. Al-Fatah, partito fondato da Yasser Arafat con vocazione rivoluzionaria, un partito d’ispirazione social-democratica che aveva un ruolo attivo nella lotta di liberazione. Questo ruolo viene a sfumare nel periodo delle trattative per gli Accordi di Oslo, che vengono inizialmente percepiti come una vittoria dai palestinesi, ma poi ci si rende conto di quanto fossero sbilanciati. Inoltre crearono una frammentazione del popolo palestinese (diviso nelle aree A, B, e C) che coadiuvava il principio divide et impera assunto da Israele. Al-Fatah paga quindi lo scotto di quelle scelte. In seguito c’è la questione della successione di Arafat, conclusa con l’ascesa di Abu Mazen (Mahmoud Abbas), che non appartiene alla stessa estrazione rivoluzionaria. È l’uomo che piace all’Occidente e che traghetterà i palestinesi fuori dalla Seconda Intifada e dallo spirito della resistenza che aveva animato il malcontento nei confronti di Oslo.
C’è poi Hamas, che è una forza più giovane, di matrice islamica, che ha conquistato la fiducia della popolazione ponendosi come forza rivoluzionaria e come risposta alla frustrazione post-Oslo. Questo è un elemento che deve essere preso in considerazione. Non possiamo vedere Hamas semplicemente come movimento terroristico senza considerare il suo ruolo all’interno della resistenza. Poi ci sono forze minori: a Gaza c’è il Jihad Islamico, che fa parte della resistenza, poi c’è il PFLP che è una forza socialista (di cui fa parte Khalida Jarrar). C’è poi un “detenuto eccellente” di al-Fatah che è Marwan Barghouti, già rivale di Abbas nella successione ad Arafat. Barghouti non ha mai smesso di organizzare la resistenza anche dall’interno del carcere, né di fare politica attiva.
Alle legislative previste per maggio Al Fatah, contro le aspettative di Abbas, non avrebbe corso in modo unitario. C’è stata una spaccatura e una lista alternativa guidata da Nasser al-Qudwa e dalla moglie di Barghouti, Fadwa Barghouti. Questa spaccatura avrebbe determinato con ogni probabilità una sconfitta di al-Fatah anche nella Cisgiordania, a vantaggio di Hamas. Inoltre Marwan Barghouti si sarebbe candidato dal carcere alle elezioni presidenziali e secondo i sondaggi avrebbe stravinto. A quel punto risulta chiara la volontà di Abbas di rimandare le elezioni. Quello che ha stizzito i palestinesi è che abbia usato come scusa il fatto che l’occupazione di Gerusalemme non consentiva le elezioni, proprio in un momento in cui la città stava lottando in prima linea.
Parliamo delle reazioni internazionali. Gli USA hanno dimostrato un grande immobilismo nelle trattative diplomatiche, con un certo sbilanciamento nei confronti di Israele, sia a parole sia ponendo il veto sulle dichiarazioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Anche l’UE si è mostrata divisa e non è riuscita ad esprimere una posizione unica e netta sulla questione. Qual è la tua interpretazione del ruolo di queste due forze in questa situazione?
Gli USA sono in una posizione molto particolare. Sono i migliori alleati di Israele, a prescindere dall’alternanza politica tra democratici e repubblicani. Per di più Joe Biden è assolutamente schiacciato sulle posizioni del sionismo, così come Kamala Harris ha più volte partecipato alle riunioni dell’AIPAC. C’è inoltre la questione legata agli aiuti militari che gli USA elargiscono generosamente a Israele e che sono stati aumentati nell’epoca di Barack Obama.
Israele costituisce un avamposto coloniale dell’Occidente in Medio Oriente che è essenziale per gli USA, oltre alle pressioni che ricevono i membri del Congresso da questi gruppi di pressione come l’AIPAC. Va detto però che ci sono dei piccoli movimenti che si percepiscono sotto le ceneri.
Mai era successo che oltre 20 membri del Congresso esprimessero sdegno per le aggressioni israeliane contro i palestinesi. Ci sono Rashida Tlaib, deputata di origine palestinese, Alexandria Ocasio-Cortez, Bernie Sanders che hanno espresso posizioni molto determinate. Quello che davvero sorprende degli Stati Uniti è il cambiamento di prospettiva da parte dell’opinione pubblica, che in questo momento è particolarmente sdegnata nei confronti delle azioni di Israele. Sembra che sia in atto una vera e propria inversione di tendenza. Anche a livello di media mainstream ci sono stati dei segnali in questo senso.
L’UE come sempre lancia dei segnali molto ambivalenti quando si tratta della questione palestinese. In ogni caso non viene mai meno l’atlantismo della nostra politica estera, né il sostegno a Israele. Nel caso dell’Italia questa è una tendenza che si è affermata negli ultimi vent’anni, mentre nella Prima Repubblica c’erano posizioni molto più coraggiose in favore del popolo palestinese. Nel consesso dei Ministri degli Esteri europei il veto è arrivato dall’Ungheria di Orban, che peraltro è una forza di estrema destra con dei germi antisemiti. Ma l’unione tra Israele e l’estrema destra europea e mondiale non è affatto una tendenza inedita. In generale l’UE non esprime mai una condanna ferma, ci sono soltanto iniziative specifiche di tanto in tanto.
Si nota però che in questo contesto l’Asia sta avendo un ruolo molto più importante, non solo la Cina, ma anche il Pakistan e la Russia.
Quali sono state invece le reazioni dei paesi arabi? L’Egitto si è posto come mediatore, e anche la Giordania. Ci sono poi paesi che con i recenti Accordi di Abramo hanno le mani sempre più legate. Quale ruolo giocano in questo momento i paesi arabi?
Questi accordi sono stati fatti passare come una tappa sulla road map per la pace, mentre di fatto sono stati raggiunti sulla pelle dei palestinesi e non in loro favore. Servivano in quel momento a polarizzare ulteriormente la regione tra forze avverse e vicine all’Iran. Oltre che a isolare ulteriormente il popolo palestinese, che si è sentito tradito da questi accordi. Secondo me hanno contribuito molto a scatenare la rabbia che in questo momento sta attraversando il popolo palestinese. Ricordiamo che la Prima Intifada scoppiò in una situazione in cui i palestinesi si sentivano particolarmente isolati e traditi dagli altri paesi arabi. Negli ultimi periodi la stessa Lega Araba era schiacciata su posizioni filoisraeliane.
L’Egitto come sempre ha svolto un ruolo di mediazione, nonostante tenga insieme a Israele il blocco sulla Striscia. In particolare con il regime di al-Sisi non possiamo parlare di una forza amica del popolo palestinese. Anche la posizione della Giordania è sempre molto ambivalente, ma nel caso specifico, con la minaccia su Gerusalemme, non poteva permettersi di non intervenire. Quello che si nota nel mondo arabo è una forte discrepanza tra le decisioni politiche e la volontà del popolo. In Giordania, in Tunisia, in Algeria, in Marocco ci sono state delle manifestazioni oceaniche. Anche in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi il popolo è dalla parte dei palestinesi, ma non trattandosi di democrazie il consenso verso la loro classe dirigente non viene preso così tanto in conto.
Per quanto riguarda l’informazione e la copertura mediatica mi sembra che nonostante quasi tutti i canali mainstream continuino a diffondere informazioni parziali e a volte anche a censurarle, si sta vedendo una contro-narrazione molto forte, portata avanti da cittadini e attivisti grazie anche all’uso dei social. Secondo te questa tendenza ha la possibilità di influire o orientare i media mainstream verso un racconto più imparziale o è un fenomeno destinato ad essere recepito solo da una nicchia?
Per quanto riguarda il mio giudizio personale sulla narrazione che si è fatta di questi eventi devo dire che sono molto arrabbiata. Lavoro per il Palestine Chronicle, che ha un punto di vista palestinese molto forte, anche perché la nostra redazione è composta da molti giornalisti e fotografi palestinesi. Vedendo quello che riferiscono i giornalisti sul campo e le foto di bambini trucidati fa molto male vedere i telegiornali parlare di bombardamenti mirati su obbiettivi terroristici da parte di Israele. Ieri è stato ucciso un nostro collega Yousef Abu Hussein, che lavorava per una radio di Gaza. Ricordiamo che in questo momento il valico di Beit Hanun è chiuso e i giornalisti stranieri non possono entrare nella Striscia.
Gli unici che possono documentare la situazione sono i giornalisti palestinesi che si trovano sul posto e che stanno facendo un lavoro incredibile. Vedere come i media si stanno facendo portavoce dell’esercito israeliano è veramente triste, oltre che contrario alla deontologia.
Ma come hai detto c’è un cambiamento: in Italia fatica ancora ad arrivare, ma all’estero è già più preponderante. In questo senso è fondamentale l’azione dei gruppi di pressione dal basso. Per esempio in America ci sono gruppi e associazioni che stanno facendo un lavoro molto importante. Anche in Italia sta arrivando questa tendenza: ci sono gruppi come i Giovani Palestinesi d’Italia che fanno un lavoro incredibile. Per esempio hanno lanciato una petizione contro il servizio pubblico per il modo di fare informazione sulle vicende di questi giorni, oltre che varie manifestazioni. Questi segnali sono molto importanti perché uno dei pilastri su cui si fonda lo stato di Israele è l’impianto della propaganda. Qualsiasi azione che vada a smontare l’immagine che Israele vuole dare di sé e ricostruisca la verità è fondamentale.
Molto spesso si sente dire che dobbiamo dare voce al popolo palestinese, ma i palestinesi ce l’hanno una voce ed è molto articolata. Ci sono intellettuali raffinati, sono uno dei popoli più scolarizzati al mondo. Noi possiamo solo amplificare la voce dei palestinesi. Non dobbiamo offrire soluzioni, dobbiamo recepire le loro tendenze e agire presso le sedi competenti affinché venga ripristinata la verità. E dopo tanti anni sto vedendo che dei segnali di cambiamento ci sono.
Potete trovare l’intervista completa a questo link
Giulia Della Michelina