Di Francesca de Carolis
Ho seguito una giornata di studio a proposito di Arte e Filosofia a Rebibbia.
Una riflessione sui progetti di pratiche artistiche e filosofiche che da anni vengono portati avanti, nel carcere romano, grazie anche, fra gli altri, all’impegno della scuola di formazione filosofica Daimon. Vale la pena di parlarne…
Personalmente sono sempre più convinta che bisogna tendere a una società senza carceri, che rielabori il concetto di pena, che sappia reinventarle, le pene (non certo eliminarle), in coerenza con quanto stabilisce la nostra Costituzione nel tanto citato quanto poco rispettato articolo 27, secondo cui “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Certo, non è cosa semplice. Ci vorrà del tempo (spero poco) ma io credo che iniziative come queste di Rebibbia aiutino molto, anzi siano imprescindibili, per andare in questa direzione…
C’è un’immagine che mi è rimasta, forte, degli incontri di filosofia con tanta passione guidati da Fernanda Francesca Aversa (il cui percorso si è poi condensato in un titolo ben indicativo e suggestivo: Naufraghi in cerca di una stella. Sì, una stella, piuttosto che una terra): l’idea dello spazio di una cella che diventa spazio di libertà… Ed è a mio parere un passaggio fondamentale, perché questo spazio di libertà dentro una cella è una premessa culturale che può accompagnare un processo di riforma nel senso che mi auguro.
Un primo passo da compiere per scalfire mura, e ricomporre le fratture che si sono prodotte nella società. Iniziando ad abbatterle dentro ciascuno di noi, quelle mura. Perché accanto a fratture individuali di chi ha commesso un reato, c’è quell’enorme frattura sociale che nasce da una responsabilità collettiva di tutti noi che vogliamo “i colpevoli” sempre e solo dietro le mura di un carcere, chiudendoli al mondo. Magari per timore, confusione, ma soprattutto per nulla saperne…
Ecco, il corso di filosofia ha offerto un grande strumento, a chi è recluso, per ricucire la propria individuale frattura.
Una testimonianza fra tante, quella di Fabio Falbo, “resiliente nella caverna”, con tutto il peso dell’“eccesso di dolore” della propria condizione (“esagerato” è aggettivo che ritorna spesso nelle lettere che ricevo dal carcere), che si immagina “gladiatore che dalle sofferenze, dal dolore, dalle tragedie… deve far uscire il meglio di sé”.
Grande strumento anche l’arte che, a Rebibbia, arriva attraverso il bellissimo lavoro di Francesca Tricarico, che fra l’altro ha collaborato al film dei fratelli Taviani “Cesare deve morire”. Come il progetto “Donne del muro alto”, altro “titolo” che tutto riassume. Francesca Tricarico che ha scelto il femminile. Ha scelto le donne, per le quali sono sempre scarse le offerte culturali. Forse perché così poche, le donne, (2.255, il dato a dicembre) rispetto all’enorme universo maschile… e pensate quanto è più difficile, quanto più duro essere relegati in un mondo costruito a misura di maschio.
“Teatro è presenza -spiega- ci obbliga a essere e rispondere, restituisce la libertà di esprimersi in un mondo dove la libertà è levarsi la maschera della vita… E’ sperimentare la possibilità di trasformare se stesso attraverso la comunione con gli altri”.
E poi c’è, dicevo, l’enorme frattura sociale cui contribuiamo tutti noi, con le nostre chiusure.
E penso al “Più Voce e Meno pregiudizi”, che chiedono le Donne del Muro Alto, che ho ascoltato, calde degli echi del sud… E penso alle parole di Pietro Lo Faro, studente dei seminari di filosofia, che…
“Si avverte davvero invalicabile quel muro che la società tutta ha costruito intorno alla “colpa”, come fosse sempre e solo affare d’altri, “eppure continuo a studiare e a coltivare in me il pensiero che potrei un giorno essere considerato altro che non un delinquente”. Perché “riconoscermi negli altri è un’esigenza di cui ancora oggi ho bisogno.”
E quanto è vero, se noi tutti siamo l’immagine che ci restituisce lo sguardo dell’altro…
Sono le voci, le esperienze come queste che andrebbero sempre più portate “fuori”, fatte conoscere… a ricucire la frattura che divide chi è dentro dal resto della società, a riempire il vuoto di conoscenza, ad abbattere l’indifferenza, e poter poi pensare, insieme, un mondo dove la pena non è più quell’inutile orrore che è mediamente il carcere, perché non dappertutto esistono iniziative come quelle di cui vi sto parlando…
A riprova, mi piace raccontare una bella storia di cui ho esperienza personale.
Quella di Alfredo Sole, che scontava l’ergastolo nel carcere di Opera, e un giorno mi raccontò di essere stato lì lì per farla finita, quando ha aperto un libro che aveva accanto e fino ad allora distrattamente sfogliato… “nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai in una selva oscura… “. La Divina Commedia lo cattura. e legge legge, senza sosta fino all’alba, e con la luce del giorno svaniscono le ombre anche dell’anima. “Dante mi ha salvato la vita”, dice ancora oggi che è in semilibertà. La sua vicenda ha colpito molto un gruppo di studenti, alla cui docente avevo raccontato questa storia. Ne sono nati incontri, lezioni, discussioni… intorno a temi quali la libertà, la felicità, le scelte, la consapevolezza. E, sapete?, ascoltando, interrogandosi, riflettendo… ne è nata una nuova conoscenza, una diversa attenzione nei confronti di un mondo fino ad allora magari distante e indifferente, e c’è chi ha cambiato opinione a proposito di carcere, di colpe, di pene…
Se vi sembra poco…
Questi studenti andranno a comporre l’opinione pubblica del domani, e sappiamo tutti quanto l’opinione pubblica influenzi, nel bene e nel male, i processi di riforma…
Un vero peccato che le testimonianze che ho ascoltato nel seminario di Rebibbia siano rimaste nel chiuso del cerchio dei pochi ammessi…
Mi permetto, però, di fare evadere i versi di una poesia di Giovanni C. , Le emozioni ferite…
Un germoglio non ho visto fiorire
Uno sconforto non ho potuto lenire
Un dolore non ho potuto attenuare
Una rabbia non ho potuto calmare.
Un fiore non ho visto sbocciare
Un po’ di calore non gli ho potuto dare
Un cammino non ho potuto incoraggiare.
Solo per un’ora ho potuto alleviare
Quello che un giorno ogni giorno dovrebbe fare.