Avete mai notato che ogni giorno, più o meno tutti i media trovano la storia strappalacrime da propinarci? Ogni giorno ha la sua vittima e il suo carnefice: si solidarizza con uno e si twitta indignati contro l’altro. Non ci interessa molto, a dire il vero, del dramma profondo di chi ha subito un torto. Per noi è solo l’uomo sandwich su cui oggi vogliamo affiggere il nostro messaggio al mondo. Se siamo politici, vogliamo usare il grimaldello dell’empatia per veicolare un contenuto che, altrimenti, non leggerebbe nessuno. Se siamo utenti, puntiamo semplicemente a sentirci e a dimostrare agli altri che sì, siamo brave persone. Quali sono però le insidie dell’elevazione dogmatica di chi subisce? Ce lo spiega Daniele Giglioli, nel suo Critica della vittima, edito da Nottetempo.
La parola “vittima” deriva dal latino victus, vocabolo che stava a indicare il cibo offerto agli dei. A sua volta potrebbe derivare da vincire, nel senso di legare, perché appunto la vittima era legata al sacrificio. Si collega poi al lemma victoria, perché la vittima veniva offerta agli dei come ringraziamento per un trionfo in battaglia, o anche perché, semplicemente, nei riti più antichi erano proprio i vinti ad essere offerti. Il tracciato etimologico, poi, si spinge fino alla radice di vigere: essere robusto e forte. La vittima, infatti, veniva selezionata tra gli esemplari migliori, o comunque si trattava di un capo di bestiame tra i più vigorosi. Quella che veniva chiamata ostia, invece, era sì una vittima, ma minore in stazza.
La vittima: l’archetipo preferito
Chi è, però, oggi la vittima? È l’eroe del nostro tempo, come descrive Daniele Giglioli nel suo “Critica della vittima”, edito da Nottetempo. È il soggetto preferito dallo slacktivism, l’attivismo da divano e da social: è il destinatario della nostra empatia, ma è anche lo strumento attraverso il quale mostriamo a noi stessi e agli altri di essere brave persone, che tanto è gratis. Essere vittima dà diritto a un’acritica difesa a spada tratta, a uno spargimento generalizzato di cenere sui capi. Permette agli altri di riconoscersi in una fazione molto precisa, che distingue il nero dal bianco: è un bias confermativo che ci consente di dire agli altri “Shame on you”. Giglioli, nel parlare di vittima, saltella sul limite dello strapiombo, perché sono i tempi duri della cancel culture e del politically correct degenerato, in cui il cucirsi addosso il ruolo di vittima fa da scudo a ogni critica. Lo stereotipo che però si costruisce con questo tipo di narrazione rischia di appiattire il dibattito e di renderci ciechi di fronte alle sfumature. Ci impantaniamo quindi in un paradigma paralizzante, in cui non ci può essere dibattito né dinamica, perché i ruoli sono fissi, rigidi e immutabili.
La sparizione del contesto
Nella nostra vita, distribuiamo coccarde ed eliminiamo contesti. Di qui le vittime e di là i carnefici: prodigarsi in tweet contriti e in solidali “poverino” è diventato il nostro sport preferito, mentre, dall’altra parte, ci impegniamo a fondo affinché il carnefice della giornata trovi punizione e oblio in tutti gli angoli dell’universo. Una volta era damnatio memoriae, ora la chiamano cancel culture, ma poco cambia.
Impotenza per la potenza
Quella di Giglioli, quindi, è una sperimentazione tra critica ed etica, come dice il sottotitolo. La vittima è per noi solo un soggetto che patisce, come soggetto elevato proprio per il suo essere prima stato in basso, nella sua impotenza. L’assenza di forza, dunque, diventa mezzo per la potenza: lo dice bene Giglioli quando dà la sua definizione di umano come “ciò che può essere colpito”. La vittima seduce promettendo in cambio un’identità forte e innegabile: cos’è infatti lo storytelling da cui ogni giorno veniamo bombardati sui social, se non un bieco tentativo di suscitare empatia e, quindi, adesione emotiva ai contenuti di chi ci sta raccontando la storiella strappalacrime del giorno? Pensiamo a quante volte scrolliamo Facebook e ci imbattiamo nella storia della vittima della giornata: il problema non è la persona, con il suo personalissimo dramma. La questione è la strumentalizzazione che si porta avanti, cercando di rendere il soggetto che ha subito questo o quel torto un soldato per la propria battaglia.
Succubi dell’empatia?
Presentare la storia di una vittima, fare leva sui punti più sensibili della narrazione, è un modo per fare abbassare a chi legge o guarda qualsiasi arma e veicolare attraverso un soggetto un messaggio ben preciso. La vittima è il grimaldello che scardina i nostri pregiudizi nei confronti di contenuti, che se presentati senza la narrazione del vittimismo, non otterrebbero la nostra attenzione.
Critica della vittima come nuovo approccio
Come in “Critica della vittima” ci hanno provato poi in molti a riflettere sull’atteggiamento supino che, da qualche tempo, abbiamo tutti. Ci ha pensato Bret Easton Ellis, lo ha seguito Paul Bloom e, in Italia, ci si è imbaracata pure Guia Soncini. La riflessione sulla vittima, l’empatia, la cancel culture e tutto il resto sono parte di una matassa complicata. È soprattutto un discorso controcorrente, perché solidarizzare con la vittima è facile e ci fa sentire parte di un qualcosa, elevando i sentimenti e lasciando indietro la razionalità, cullandoci nell’illusione di essere state, anche oggi, brave persone.
Elisa Ghidini