Quando si parla di fotografia, rischiamo di tornare, con la mente, sempre ai soliti noti: Robert Mapplethorpe, Henri Cartier-Bresson, il più recente Steve McCurry. Si parla sempre troppo poco di fotografe donne, che però non hanno non solo nulla da invidiare ai colleghi uomini, anzi, ma spesso e volentieri sono state un passo avanti a loro. Letizia Battaglia, Diane Arbus, Lisetta Carmi: queste sono solo alcune fra le donne che, armate di fotocamera, genio e follia, hanno rivoluzionato la storia.
Gerda Taro merita assolutamente il posto fra queste e, in generale, sull’altare dei grandi fotografi della storia.
Tanti nomi, una sola Gerda Taro
Di nomi, Gerda e le sue foto, ne avranno tanti: nasce come Gerda Pohorylle a Stoccarda nel 1911, da una buona famiglia polacca di origini ebree galiziane. Poliglotta, studiosa e testarda, vive la sua adolescenza a Lipsia. L’avvento del nazismo, però, sconvolge tutto: Gerda viene arrestata, accusata di attività sovversiva e propaganda antinazista. Un aneddoto racconta che lei si scusa con le sue compagne di detenzione per il suo abbigliamento: “le SA mi hanno arrestata proprio mentre stavo uscendo per andare a ballare”.
Non c’è certezza sul suo militare nel Partito Comunista Tedesco, ma è certo che lei, scarcerata grazie al suo passaporto polacco, fugge in Francia, alla volta di un futuro nella città degli artisti e degli intellettuali: Parigi.
Dopo vari lavori come segretaria e dattilografa, la giovanissima Gerda riesce a rifarsi una vita. È l’amica Ruth, sua coinquilina, a cambiarle la vita, presentandole un giovane fotografo ungherese – anche lui ebreo, anche lui comunista, anche lui antifascista reduce dal carcere. Si chiama Endre Friedmann, ma oggi è conosciuto come Robert Capa.
È lui a insegnarle la fotografia, in cambio è Gerda a battezzarlo come Robert Capa. I due, decidendo di lavorare assieme come fotografi, decidono di creare un alter ego: un fotografo americano appena giunto a Parigi, appunto Robert Capa. I due lavorano sotto lo stesso pseudonimo e tale stratagemma riesce bene, i due ragazzi hanno un certo successo.
Anche Gerda cambia nome. Le piace l’assonanza del nome dell’attrice Greta Garbo e decide di emularla: Gerda sì, ma Taro, dall’artista giapponese Tarō Okamoto.
L’amore, la guerra, la morte
Endre le chiede più volte di sposarla, ma lei vuole essere libera: compagna, non moglie. E dopotutto, perché dovrebbero sposarsi? I due sono nel pieno delle loro giovinezze, cominciano a produrre con i nomi Capa&Taro, frequentano i circoli intellettuali parigini, conoscendo fra gli altri Ernest Hemingway.
Il loro spirito rivoluzionario però li chiama in Spagna: nel 1936, la guerra civile spagnola li porta sia a militare fra gli antifascisti, sia a creare dei reportage che passeranno alla storia. I due sono inseparabili, ma decidono finalmente di distinguere le proprie fotografie e identità professionali e Gerda comincia a firmare le foto con solo il suo cognome.
Fra i due, è Gerda quella che più di tutti si fa notare: è passionaria, idealista ma soprattutto non teme alcun rischio. Ciò però le costa caro, perché muore a Brunete, proprio durante la guerra civile spagnola, investita dai cingoli di un carro armato.
Ma anche la morte deve essere come dice Gerda, a modo suo: si mantiene le viscere con le mani con stoico coraggio mentre viene portata all’ospedale, la operano senza anestetici e antibiotici, ma nonostante tutto lei ha un solo pensiero in mente: le sue macchine fotografiche, che continua a chiedere sino a quando non ha semplicemente, a soli 26 anni, chiuso gli occhi.
Il ricordo di Gerda Taro
Endre non c’è quando lei viene a mancare. È a Parigi, a trattare con delle agenzie. Il fotografo, ovviamente, ne resta sconvolto. Non solo non supera mai il trauma – dicendo sempre di essere morto anche lui quel maledetto 26 luglio 1937 – ma muore anche lui in guerra, nel 1954. Lui non muore per un carro armato, ma per una mina in Indocina. Dopotutto, Endre condivide con Gerda il richiamo del rischio, della storia da narrare a costo della vita, che è ciò che li ha resi i due grandi fotoreporter del Novecento. Endre pubblica un libro su di lei, per fare in modo che non solo lui, ma il mondo intero la ricordi: Death in the making.
Ma la morte di Gerda Taro non sconvolge solo l’amatissimo Endre, ma l’intero mondo artistico ed intellettuale. Pablo Neruda scrive il suo epitaffio e Alberto Giacometti disegna la sua tomba nel cimitero di Père-Lachaise a Parigi, ma i nazisti non mancano di distruggerla quando entrano a Parigi. Oggi c’è una lapide semplice a ricordarla, ma la Storia ha già Gerda Taro fra le sue stelle più brillanti: non servono altari celebrativi, perché Gerda Taro si racconta da sé.
Solo di recente si è ricominciato a parlare di lei: prima con una canzone degli Alt-J, Taro, che fa ricongiungere Gerda ed Endre dopo la morte, successivamente con il libro vincitore del Premio Strega “La ragazza con la Leica” di Helena Janeczek. Ciò ha portato anche a una rivalutazione delle foto fatte da “Robert Capa”, per capire quali siano di Gerda e quali di Endre.
Di certo, Gerda Taro è stata una delle più grandi fotografe della storia, un’idealista rara e una figura leggendaria che vale la pena di conoscere.
Giulia Terralavoro