In un tempo sempre più complesso, la nostra vita mentale potrebbe giovare enormemente della semplicità. Già, ma come? Ne abbiamo discusso con il filosofo Leonardo Caffo, che nel suo ultimo libro indaga questo concetto come strategia rivoluzionaria di esistenza (e resistenza) filosofica.
Correva l’anno 1930 quando Bertrand Russell ne La conquista della felicità evidenziava il ruolo della semplicità nella costruzione di una vita felice, scrivendo:
Certe cose sono indispensabili per la felicità della maggior parte degli uomini, ma si tratta di cose semplici. Il pane e un tetto, la salute, l’amore, un lavoro fortunato e il rispetto del proprio ambiente. Per altri sono essenziali anche i figli. Là dove queste cose mancano, soltanto l’uomo eccezionale può essere felice. Ma dove esistono o dove, con sforzi bene indirizzati, è possibile ottenerle, l’uomo che ciononostante è infelice soffre di qualche squilibrio psicologico.
Russell non era certo il primo, nella storia della filosofia, a individuare nella semplicità la via maestra verso la felicità. A giudicare dal nostro stile di vita e dalla complessità delle nostre esistenze, però, evidentemente il suo consiglio è rimasto inascoltato. Una situazione che la pandemia in corso non ha fatto che peggiorare, aggiungendo alla prigionia dentro routine frenetiche un senso di claustrofobia.
Come sopravvivere alle sfide di un tempo sempre più complicato? Secondo Leonardo Caffo, un modo c’è. Si può uscirne vivi, senza mozzarsi né il respiro né il pensiero, cominciando – finalmente – a prendere sul serio la via della semplicità.
Aspetti a scuotere la testa chi pensa di avere a che fare con un santone improvvisato che blatera teorie semplicistiche in salsa new age. Quella del giovane filosofo italiano, che s’ispira a pensatori come Thoreau e Wittgenstein, è un’esperienza di pensiero radicale rigorosissima. Una filosofia che, per intenderci, si sottopone fino in fondo all’esame della vita senza il timore di non superarlo. Perché, come risulta chiaro dal suo Quattro capanne o della semplicità, non è un vero saper pensare quello che non si traduce in saper essere. Una tesi forte, in controtendenza rispetto alla filosofia istituzionale accademica, che gli abbiamo chiesto di approfondire in un’intervista.
Lo scorso anno, in piena pandemia, usciva il tuo Quattro capanne, un testo interamente dedicato all’indagine filosofica della semplicità. Questo libro ha un andamento un po’ insolito per il lettore non specialista, perché intreccia il rigore del saggio all’intimità disarmante di una narrazione diaristica. Per cercare di comprendere meglio la tua idea di semplicità, allora, mi piacerebbe partire proprio da un frammento autobiografico. Quello in cui dici: «Prima ero un filosofo, ora, semplicemente, un uomo». Che cosa significa?
«Ti ringrazio per la domanda e per aver cominciato proprio da un brano del memoir filosofico che sta nel testo. In effetti, se questa commistione tra saggio e diario appare strana è a causa di un malinteso recente. È una puttanata contemporanea il far credere che la filosofia coincida con la saggistica: filosofare scrivendo è narrare e fare ricerca sullo stile, sulla scrittura. Del resto, il canone della storia della filosofia occidentale è ricco di romanzi, diari, raccolte di aforismi e perfino poesie. Pensiamo, ad esempio, allo Zarathustra di Nietzsche, a Schopenhauer, al Diario del Seduttore e Aut-Aut di Kierkegaard. Tra mille anni è improbabile che qualcuno si ricordi ancora di me, ma certo nemmeno degli articoletti sulle riviste specialistiche lette da cinque persone. Saranno opere come quelle a ingaggiare ancora una sfida col pensiero.
Per quanto riguarda la semplicità, essa è una postura esistenziale che smette di dividere teoria e prassi, conoscenza ed esperienza, umano e natura. Una parte maggioritaria della tradizione filosofica ha scisso nettamente il sapere dalla vita: questo itinerario attraverso la semplicità costituisce un tentativo di superare quella scissione. Quello che ho cercato di mostrare è che la ricerca della verità non consiste in un percorso verso l’esterno, nel tentativo di sistemare le cose del mondo. È, invece, una questione esistenziale – non per questo meno impegnativa, rigorosa, cruciale.»
Dalle tue parole la semplicità affiora come una scelta di vita e di pensiero che ci permette di essere presenti a noi stessi. Essere qui e ora, divenendo capaci di prendere le distanze dalla complessità tossica e dalle routine frenetiche che ci portano continue sofferenze. Complessità e routine rispetto alle quali, già prima della pandemia, in molti si sentivano a disagio: segno che, forse, già da tempo non funzionavano più. Se però al cuore della semplicità c’è la capacità di vivere in un qui e ora, che rapporto c’è tra semplicità e narrazione? La narrazione non implica inevitabilmente un distanziamento rispetto all’aderenza alla vita che implica la semplicità?
«Be’, per prima cosa bisogna riconoscere che nessun filosofo è mai vissuto come ha scritto! La scrittura, come sosteneva Michel Foucault, è l’unico spazio in cui bisogna essere davvero liberi. L’unico spazio nel quale possiamo (e dovremmo) concederci davvero quella libertà che tanto immaginiamo. Ora, si può pensare che i filosofi scrivano per mostrare come vivono e pensano, oppure per mostrare chi sarebbero voluti essere senza riuscirci. Credo che per me siano entrambe vere, particolarmente la seconda. Cosa che non significa, naturalmente, predicare bene e razzolare male; è solo che lo spazio della scrittura filosofica è più ampio di quello della vita. La nostra quotidianità ci vincola e ci attrae a cose abbastanza diverse dal “qui ed ora” di cui parlo nel libro. La questione è capire se ci sia un modello di vita migliore, più corretto, rispetto al modello di vita maggioritario che generalmente si sceglie acriticamente.
Un aspetto paradossale della situazione odierna è che, sì, la pandemia ha mostrato che quel modello non funzionava, ma comunque non riusciamo a immaginare altro. L’obiettivo, oggi, è uscire dalla pandemia per tornare a prima, anche perché non siamo riusciti a escogitare modelli e scenari alternativi. Ma prima cosa c’era? Principalmente, la vita distrattiva che il capitalismo ci ha regalato: quella dell’intrattenimento sempre disponibile per evadere dalla depressione. Esistono delle alternative? Sì: le vite dei quattro personaggi che ho voluto raccontare sono in effetti quattro modelli, quattro alternative-filosofia. Parlando di semplicità, mi interessa soprattutto che chi mi legge o ascolta affronti una domanda: “Questo è veramente il modo in cui io voglio vivere?“. Questa domanda, poi, può anche avere esiti paradossali o in contrasto con la mia riflessione. Una persona potrebbe benissimo concludere: “Sì: non voglio assolutamente vivere per pensare”. Però quella domanda deve essere sollevata.»
Essere in grado di porsi questa domanda, però, mi sembra dipendere in larga misura anche dall’educazione. Così come, del resto, dall’educazione dipende la varietà di modi di vita che riteniamo possibili. Fin da bambini, infatti, veniamo istruiti a compiere operazioni astratte e ad avere a che fare con concetti e costrutti sociali. La nostra educazione a muoverci nel mondo naturale e interagire con l’ambiente, invece, è molto limitata. La maggior parte dei laureati e delle persone che svolgono lavori ritenuti eccellenti non saprebbero orientarsi in un bosco o coltivare un orto. Da dove potrebbe ripartire un’educazione che permetta agli umani di oggi e di domani di scegliere modelli alternativi?
«Per prima cosa, prendendo spunto da quelle realtà che, in varie parti del mondo, coltivano un essere umano multidimensionale. Cioè curioso, consapevole, aperto al mondo e alle possibilità di esperienza che offre. Mi viene in mente, ad esempio, Casa Sula, una scuola in Costa Rica nella quale l’educazione è intesa in senso molto ampio. Infatti, fin da molto piccoli gli allievi vengono istruiti a leggere e scrivere in varie lingue, ma anche a coltivare, cucinare e badare a sé. L’idea è di provare a recuperare dimensioni come corporeità, auto-progettazione e fantasia, che la nostra educazione ha sistematicamente svalutato e trascurato. Il nostro sistema educativo ci ha plasmati come bisognosi dell’altro e focalizzati unicamente sulla vista o sul pensiero. Forse, se questo fosse stato diverso, sarebbe stato diverso anche il modo in cui avremmo vissuto la pandemia.
La questione da capire è che l’educazione e le sue fragilità discendono da una specifica visione dell’essere umano. Per rileggere cosa significhi educare una vita dovremmo problematizzare il concetto di “essere umano”. Dovremmo ripartire dal suo costitutivo stare al mondo, cercando di capire anche cosa s’intenda per “stare al mondo”. Se ritengo probabile che questo accada oggi in Italia? No. La scuola, anziché essere ripensata e ridisegnata, viene costantemente impoverita. E l’impatto con il digitale e del digitale stesso rischia di demolirla, anche grazie alla povertà intellettuale assoluta e disperante dei nostri Ministeri dell’Istruzione. Il maggiore fallimento della nostra educazione oggi – che, peraltro, fa il successo dell’accademia di Google – è non comprendere che educare non significa creare programmi ministeriali. Educare significa offrire degli strumenti per imparare a stare al mondo: una educazione che prescinde da questo si condanna all’irrilevanza e al fallimento.»
Punto interessante e delicatissimo. Mi piacerebbe, però, approfondire la questione della visione dell’essere umano al fondo di ogni modello educativo. Vorrei farlo tornando alle quattro figure delineate nel tuo ultimo libro, quattro uomini che scelgono una vita solitaria. Pensando a loro, spesso mi è tornata in mente quella famosa affermazione di Aristotele secondo la quale l’uomo è un “animale sociale”. Chi non vive coi suoi simili, sosteneva il filosofo, è una bestia o un dio, non un umano. Ora, è anche vero che l’umano cui tu pensi non è l’Homo Sapiens, bensì il post-umano contemporaneo, specie della quale hai parlato anzitutto in in Fragile umanità. Che rapporto ha questa specie, nonché l’umano al cuore di una educazione radicalmente diversa, con la socialità e il collettivo?
«Per prima cosa, liberiamo il campo da un fraintendimento. Dire che l’essere umano è “animale sociale” non significa che esso debba stare per forza in compagnia, né che sia indifferente con chi si trovi. L’essere “animali sociali” dovrebbe piuttosto essere inteso come avere una certa relazione con l’essere visti, con una dimensione pubblica. La composizione del pubblico, del resto, non è affatto indifferente. Questa dimensione, infatti, è quella in cui accade l’improvviso e l’imprevisto, quella in cui lo sguardo dell’estraneo ci interroga e ci mette in discussione. La “socialità”, perciò, non può essere ridotta al gruppo di amici o al pubblico ristretto e selezionato che ci asseconda e ci applaude. Essa non ha significato solo quando dialoghiamo con chi la pensa come noi, o con interlocutori con cui possiamo trovare un terreno comune.
I personaggi che ho raccontato sono in relazione con l’umanità anche separandosi dalla società civile perché ciò che stanno facendo non li riguarda esclusivamente. Facendo qualcosa per sé stessi, coltivando la semplicità, stanno anche facendo qualcosa di rivoluzionario per il mondo. Mostrando, cioè, che sono possibili – nonché auspicabili – modi alternativi di vivere. Inoltre, non è affatto vero che questi uomini siano soli. Se intendiamo la socialità come uno stare in relazione, come un offrirsi a molteplici sguardi, essi risultano tutt’altro che solitari nell’immergersi nella natura. Infatti, interagiscono con tutto ciò che li circonda osservando e facendosi osservare. Che poi è precisamente la postura del post-umano contemporaneo.
Ora, l’idea di umano che immagino al cuore di un’educazione radicalmente diversa è questa, che non può che passare attraverso la semplicità. Un umano che si offra allo sguardo del pianeta, che si lasci toccare e attraversare. Un umano capace di esperire la realtà non come un mero utilizzatore che pensa esclusivamente in chiave antropocentrica.»
In che modo, mi chiedo al termine dell’intervista, l’idea proposta da Caffo può aiutarci a pensare e ad abitare la complessità del presente?
Anzitutto e soprattutto, credo, permettendoci di immaginare e costruire delle alternative possibili a modelli di vita esistenzialmente soffocanti. Del resto, come Caffo affermava già nel 2016 in un piccolo saggio intitolato Del destino umano,
Errare è umano almeno quanto lo è raddrizzare il tiro: la filosofia è il segnavia.
Valeria Meazza