Roma, inizio ‘600: Artemisia Gentileschi è una giovane pittrice di talento che si sta formando nell’atelier del padre, quando subisce la più umiliante delle violenze proprio per mano del suo maestro. L’abuso la sconvolge, ma non la vince. Artemisia il #giornodopo sceglie di reagire. Artemisia il #giornodopo sceglie di dipingere un capolavoro.
La storia di Artemisia Gentileschi
Artemisia è l’unica figlia femmina di Orazio Gentileschi, pittore pisano, giunto a Roma a fine XVI secolo per farsi un nome durante il glorioso periodo della Controriforma. Orazio, vedovo, porta i figli con sé nella speranza di veder crescere tra loro un erede del proprio talento. Con amara sorpresa comprende che l’unica depositaria delle virtù paterne è la figlia femmina, Artemisia, che si mostra capace e interessata a imparare. Superato l’iniziale sconforto e compreso l’evidente talento della figlia, Orazio si impegna per la sua formazione ben conscio della strada faticosa che si presentava davanti a una donna dell’epoca per entrare nel mondo dell’arte.
Artemisia frequenta l’atelier del padre e grazie a lui ha modo di confrontarsi con colleghi illustri del calibro di Caravaggio (che ne segnò profondamente e visibilmente lo stile) in un ambiente intellettualmente stimolante. Fra questi conosce anche Agostino Tassi, pittore che – su richiesta paterna – ha il compito di insegnarle la prospettiva nel disegno. L’incontro con Agostino ebbe modo di aprirle anche un’altra prospettiva: sul dolore, la sofferenza, l’umiliazione e il riscatto.
La violenza e il disonore
Nel 1611 all’età di 17 anni la delicata innocenza della sua fanciullezza venne brutalmente squarciata da un evento traumatico. Agostino Tassi, dopo ripetuti ed insistenti tentativi di sedurre Artemisia, la violentò. Come se ciò non bastasse, lo stupro avvenne nella casa dove la giovane viveva con il padre e fu architettato con la complicità di Tuzia, da anni inquilina dei Gentileschi e unica figura femminile di riferimento di Artemisia.
“Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch’io non potessi serrarle…”
(Atti di processo, 1612)
La violenza sessuale, a prescindere dal trauma personale, al tempo rappresentava principalmente un’offesa all’onore della famiglia, e Artemisia – consapevole del danno arrecato alla sua reputazione – si lasciò convincere dalla promessa di un matrimonio riparatore. Non ci è dato sapere se al tempo dei fatti Artemisia fosse in qualche modo invaghita del Tassi o quali fossero le sue inclinazioni sessuali, e fondamentalmente non ha alcuna importanza. Che Artemisia fosse una fanciulla timorata di dio o l’assatanata insaziabile di uomini secondo le dichiarazioni del Tassi e dei suoi detrattori al processo, la questione fondamentale è che certamente non ebbe scelta. Non fu lei a scegliere e questo è sufficiente a definirlo un reato. Che si tratti di approfittare di ingenuità, debolezza, inesperienza, ebrezza, stato d’incoscienza, poco cambia. Tutto ciò ha un solo nome, sopraffazione e certamente non ha a che fare con il piacere né tantomeno con l’amore.
Artemisia Gentileschi: il processo per stupro
Furono fatte molte illazioni volte a screditare l’attendibilità della denuncia, a partire dalle voci di condotta promiscua di Artemisia, descritta come una poco di buono, fino alle perplessità per i tempi dilatati della denuncia e l’accusa a Orazio di aver pilotato una denuncia allo scopo di screditare Tassi per rivalità professionale. A dimostrare la veridicità dei fatti è la stessa scelta di intentare processo. Passato un anno dalle vacue promesse matrimoniali di Tassi, noto mascalzone oltre che già coniugato, Artemisia e il padre si decisero a denunciare la violenza complice anche il furto di un quadro di proprietà dei Gentileschi sempre ad opera di Agostino. E se non fu l’onore e il dolore della figlia, fu il furto dell’opera a smuovere Orazio Gentileschi a procedere contro il collega attraverso un processo che a quell’epoca era certamente più dannoso per la vittima che per il carnefice. Al di là dell’esito processuale e della conclamata colpa dell’imputato infatti, la reputazione della giovane coinvolta restava macchiata per sempre.
La colpa di essere oggetto di sgradite attenzioni, di essere donna. La colpa di far parte di un mondo destinato agli uomini e di aver osato alzare la voce in prima persona per rivendicare il proprio diritto alla libertà. La libertà di scegliere, la libertà di affermarsi. Fatta questa scelta – per nulla conveniente, ripetiamolo – Artemisia si preparò ad affrontare un processo lungo ed umiliante. Durante i mesi del processo subì, infatti, dolorose perquisizioni ginecologiche, diffamazioni per screditarne la parola e infine la tortura. La giovane infatti subì il “supplizio della sibilla”. Questa tortura medievale si accaniva sulle dita delle mani, – di fondamentale importanza per un’artista – per dimostrare attraverso il dolore, ancora una volta, la sincerità delle testimonianze.
La reazione: celebrazione e vendetta nelle opere di Artemisia
Terminato il processo, concluso con la condanna del Tassi, Artemisia trovò il coraggio di rialzarsi. Reagì trasferendosi a Firenze, lontano dalle malelingue e dai pettegolezzi, dove la sua carriera di talentuosa pittrice ebbe modo di decollare. Nel 1617 fu ammessa, prima donna nella storia, all’Accademia di Pittura di Firenze, e sono molti i capolavori che consegnò alla storia.
Tra i più celebri abbiamo certamente la serie di Giuditta e Oloferne, un topos iconografico molto di moda al tempo. Il noto episodio biblico racconta la decapitazione di Oloferne, condottiero babilonese, da parte della giovane Giuditta, l’eroina che si espone per salvare la sua città dalla minaccia dell’esercito nemico. A differenza di altre versioni (basti pensare alla Giuditta caravaggesca, spaventata e titubante), l’eroina rappresentata da Artemisia ci appare decisa, rabbiosa e assetata di vendetta. Impossibile non rivedere nell’opera la rivendicazione dell’abuso. Artemisia rappresenta se stessa che vendica su Agostino la violenza subita. Artemisia poco dopo la violenza realizza un autoritratto. Attraverso l’opera la Gentileschi riesce in più intenti. Celebra il ricordo del suo coraggioso tentativo di difendersi dalla violenza. Evoca la vendetta feroce e decisa con la mutilazione del colpevole. Esorcizza il dolore realizzando quel che resterà nella storia come un assoluto capolavoro del barocco.
Le nuove donne di Artemisia Gentileschi
Le sue drammatiche esperienze di vita si rovesciano nella pittura e giungono a trasformare l’assetto iconografico femminile nell’arte. Le donne di Artemisia sono donne che conoscono la sofferenza e il piacere, eredi di una prospettiva nuova. Sono donne vestite di una carnalità vissuta, violata e rivendicata. Portatrici di un corpo, fatto di voluttà e cicatrici, di rotondità e ferite, disegnato nel modo in cui solo una donna avrebbe potuto viverlo. Il suo stile predilige le tinte forti, è caratterizzato da violenza e passione, specchio del suo temperamento e del suo destino. Il chiaroscuro volteggia tra stoffe, visi e drappeggi creando sinfonie di luci ed ombre che incalzano al crescere del pathos e della tensione.
Ancor più sconcertante appare però la serie di Susanna e i vecchioni, il cui primo esemplare è precedente allo stupro. Per quanto sia probabile una postdatazione dell’opera, potrebbe anche trattarsi di un dipinto rivelatore dello stato d’animo della giovane. Oppressa dalle attenzioni del maestro e tradita dalla disattenzione del padre (i due uomini nell’opera) Artemisia avrebbe manifestato la minaccia subita attraverso l’ennesimo racconto biblico.
In questo caso il tema scelto è la rappresentazione dell’episodio in cui la giovane Susanna venne minacciata da due uomini attempati di muoverle accuse di promiscuità se non si fosse concessa alle loro voglie. La vicenda ebbe un lieto fine per Susanna, che venne scagionata dal profeta Daniele in persona, ma la Gentileschi riesce a cogliere con grande intensità la feroce lascivia che insidia la giovane.
La giustificazione del #giornodopo: una seconda violenza
Artemisia dunque in un simbolico #giornodopo ha scelto di riprendere in mano i pennelli e dare vita a inestimabili capolavori.
Se dovessimo osservare questa vicenda utilizzando i parametri di giudizio morale che sono di recente stati espressi in relazione a un recente fatto di cronaca, Artemisia sarebbe considerata colpevole. Colpevole di aver reagito o semplicemente di non aver lasciato al dolore lo spazio per dominarla.
Il momento successivo a un trauma è personalissimo e incontestabile. Nessuno può permettersi di giudicare quante lacrime deve piangere una donna. Per quanto tempo dovrà restare in una stanza al buio sentendosi colpevole, umiliata. In che data potrà permettersi di uscire o andare a cena con un uomo. Quanto “lutto” dovrà vestire prima di andare a fare surf o dipingere. Fin al momento in cui il fetido giudizio dell’opinione pubblica sarà impegnato a contare le cicatrici di Artemisia, misurare le gonne delle vittime, cronometrarne i tempi di reazione, a chiedere di giustificare il #giornodopo una violenza subita, resterà sempre meno tempo per giudicare ed arginare la ferocia dei carnefici.
Serena Oliveri