La riforma Fornero che modifica l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori è incostituzionale
La normativa sui licenziamenti illegittimi è in costante mutamento. Con la sentenza numero 59 di quest’anno, la Corte Costituzionale è di nuovo intervenuta a modificarla. I giudici hanno dichiarato incostituzionale l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori così come riformato dalla ministra Fornero.
Lo Statuto dei Lavoratori e l’articolo 18
Lo Statuto dei Lavoratori del 1970 è uno dei componenti principali il diritto del lavoro italiano. Arrivò nel pieno di una fase di grande mobilitazione del movimento operaio, sùbito dopo l’autunno caldo del ’69. La sua gestazione però è molto più lunga. Fu approvato con pochissimi voti contrari e il contributo di grosso modo tutto l’arco parlamentare, seppure con l’astensione finale del PCI, del PSIUP e del MSI.
Negli ultimi decenni le molte riforme del mercato del lavoro – nel senso di una maggiore deregolazione e di minori tutele per il lavoratore – hanno investito anche lo Statuto. In particolare, l’articolo 18 è stato spesso al centro del dibattito tra gli abolizionisti e chi (il sindacato) ne avrebbe voluto l’estensione anche alle unità produttive con meno di 15 dipendenti.
Un tentativo di abolizione parziale del regime dell’articolo 18 – da parte del secondo Governo Berlusconi – venne ostacolato nel 2002 dall’opposizione sindacale. Per lungo tempo si continuò a parlarne: gli abolizionisti hanno sempre sostenuto che maggiori tutele per i lavoratori significano minori investimenti e quindi minore occupazione.
Lo Statuto del 1970 prevedeva che il giudice potesse ordinare all’azienda l’indennizzo o la reintegrazione del lavoratore, con precisi criteri a seconda dei casi. La norma riguardava le unità produttive con più di 15 dipendenti e le aziende con più di 60, con alcune eccezioni.
La riforma Fornero e la Consulta
La legge 92 del 2012, c. d. riforma Fornero, ha modificato la norma lasciando in alcuni casi discrezionalità totale al giudice tra la reintegrazione e l’indennizzo. La recente sentenza della Consulta dichiara l’incostituzionalità dell’articolo 3 della legge. Il pronunciamento arriva dopo che il Tribunale di Ravenna aveva sollevato la questione in una vertenza.
Così la riforma della professoressa della Bocconi riusciva dove i Governi di destra non erano riusciti. Da quel momento in poi il giudice poteva scegliere discrezionalmente – e senza alcun criterio direttivo – se ordinare la reintegrazione o l’indennizzo. Tale discrezionalità sarebbe valsa solo per i licenziamenti economici. In questi casi il giudice non entra nel merito delle scelte imprenditoriali, ma valuta se il fatto sia manifestamente insussistente.
Nei casi invece in cui il licenziamento fosse dovuto a motivi soggettivi, cioè disciplinari, rimaneva l’obbligo della reintegrazione del lavoratore. È proprio questa disparità di trattamento che la Corte ha ritenuto illegittima, perché viola il principio di uguaglianza. Inoltre – non essendo previsto un criterio direttivo per il giudice del lavoro – la norma è incostituzionale anche sotto il profilo della ragionevolezza. Su quali ancoraggi infatti il giudice dovrebbe scegliere tra due strade così diverse?
Non finisce con la Fornero: il Jobs Act
Nonostante sia una sentenza che segna un punto importante per i lavoratori, il regime dei licenziamenti non si esaurisce con la riforma Fornero. Nel 2015 intervenne il Jobs Act a modificarlo ulteriormente, con il decreto legislativo 23 del 2015. La complessa riforma del diritto del lavoro fu introdotta dal Governo Renzi con una serie di decreti. Il ministro Padoan – su spinta del ministro tedesco Schäuble – ne fu uno dei principali promotori.
Il c. d. Jobs Act metteva ancora più in crisi il regime ex articolo 18. Da allora in avanti il lavoratore poteva avere diritto solo a un indennizzo predeterminato dalla legge: l’importo era automatico, in funzione degli anni di servizio. L’ammontare fu poi semplicemente aumentato di qualche mensilità dal c. d. decreto dignità del ministro Di Maio. La logica di fondo però non ne veniva messa in discussione.
Anche se non è possibile qui ripercorre la storia del Jobs Act, basti dire che la Consulta ne dichiarò l’incostituzionalità con la sentenza 194 del 2018. Il motivo fu che – secondo i giudici – l’importo non poteva essere fisso e ancorato esclusivamente al parametro dell’anzianità. La sentenza riguardava sia i licenziamenti per motivi soggettivi che oggettivi, quindi disciplinari ed economici, ma non quelli illegittimi per vizi di forma.
Purtroppo l’abrogazione totale del decreto legislativo del 2015 non è riuscita, perché il quesito fu dichiarato inammissibile dalla Corte Costituzionale nel gennaio del 2017. La CGIL aveva raccolto a tal fine 3,3 milioni di firme.
7 marzo 2015: l’anno 0 dei lavoratori
Nonostante i parziali annullamenti da parte del giudice delle leggi, i problemi per i lavoratori rimangono. Permane un regime differenziato per gli assunti prima o dopo il 7 marzo 2015; prima o dopo cioè l’entrata in vigore del Jobs Act.
Ai primi si applica l’articolo 18 riformato dalla Fornero e poi parzialmente annullato. Ai secondi il contratto a tutele crescenti del Jobs Act, riformato da Di Maio e poi parzialmente annullato.
Proprio in merito a questa discriminazione un lavoratore ha fatto ricorso di recente alla Corte di Giustizia Europea. Tutti i suoi colleghi erano stati reintegrati dal giudice del lavoro di Milano, tutti tranne lui perché assunto dopo il 7 marzo 2015. La Corte ha stabilito che la sentenza non viola le direttive UE.
Lorenzo Palaia