Una strada senza nome di James Baldwin (1924-1987) racchiude in poche pagine una profonda riflessione sull’America e sul razzismo attraverso le esperienze e gli incontri dell’autore. Un racconto di sconcertante attualità per comprendere quello che continua a rimanere uno dei mali più difficili da sradicare del nostro tempo.
Come suggerisce il titolo, Una strada senza nome (Fandango Libri, 2021) è un itinerario non lineare, fatto di balzi geografici e temporali in cui anche il ruolo di Baldwin non rimane lo stesso. Narratore, protagonista, testimone, pensatore, Baldwin riesce a scivolare da una posizione all’altra senza strappi e senza incoerenze. Semplicemente mostrando come nella scrittura, e nella vita, lo sguardo e la voce di chi parla possono assumere diverse prospettive.
Identità e esperienza collettiva
L’inizio del libro sembra condurci in una classica autobiografia, attraverso il racconto della difficile infanzia dell’autore ad Harlem. Ma ci si accorge molto presto che Una strada senza nome è molto più di un autoritratto o una narrazione delle vicende personali di chi scrive. L’identità, dice Baldwin, «sembra discendere dal modo in cui una persona affronta e utilizza le proprie esperienze». Ma è anche il prodotto delle interazioni, perché queste esperienze hanno luogo nel mondo e avvengono, quasi sempre, con o attraverso gli altri.
L’esperienza collettiva declinata, raccontata e analizzata da Baldwin in questo libro è quella della blackness, l’esperienza di essere una persona nera nell’America bianca e razzista. Un apprendistato che comincia già dall’infanzia e che può condurre molto facilmente al carcere o all’obitorio.
Il caso di Baldwin è dunque una felice eccezione, fatta di viaggi, contratti, conferenze, notorietà, vestiti nuovi e amicizie importanti. Anche se tutto questo scintillio non mette certo al riparo dagli sguardi o dalle minacce, o da qualsiasi altro guaio. E neppure è una protezione sufficiente per non fare i conti con la propria coscienza e con il senso di colpa, o meglio di ingiustizia. Perché un nero che “ce l’ha fatta” non può scordarsi dei fratelli e delle sorelle che lottano tutti i giorni per la sopravvivenza, annaspando tra le ingiurie e la miseria. E non può facilmente sostenere lo sguardo di un amico di infanzia che gli chiede se il cibo che ha preparato è abbastanza raffinato per quelle che crede essere le sue nuove abitudini. O se può regalargli un vestito dismesso che lui non si potrebbe mai permettere.
Tuttavia, Baldwin sapeva bene che «il mondo possiede più di un modo per farti rimanere un negro, e che ha elaborato svariati sistemi per farlo; se da una parte si allunga la mano, dall’altra si serra il pungo». Non è detto che ai poliziotti che ti fermano per strada interessi granché che tu sia un importante scrittore. O che le persone eleganti presenti alle stesse feste a cui sei invitato sappiano celare disprezzo e commenti sarcastici quando entri nella stanza. Il maccartismo degli anni ’50 faceva la sua parte nel rendere gli Stati Uniti un posto sempre più asfissiante e inospitale. Baldwin cerca rifugio nei suoi soggiorni a Parigi, dove scopre che il razzismo non è meno di moda che a casa sua.
Era strano ritrovarsi ad ascoltare, in un’altra lingua, in un altro paese, la solita vecchia storia e sentirsi condannare allo stesso modo
Sono soprattutto gli arabi, e in particolare gli algerini, il bersaglio di quegli anni. Per quanto si cerchi, non c’è comunità al mondo che non abbia i suoi “neri” da perseguitare, bistrattare, incarcerare e ammazzare.
Il movimento per i diritti civili
Nel frattempo però, negli Stati Uniti il movimento per i diritti civili stava avanzando, grazie al carisma dei suoi leader e al sostegno di migliaia di persone. «Non potevo più starmene seduto a Parigi a discutere dei problemi dell’Algeria e dei neri in America. Tutti gli altri stavano facendo il proprio dovere, ed era tempo che tornassi a casa e facessi anch’io lo stesso». Così, nel 1957, Baldwin ritorna prima nella sua città, New York, e si dirige poi verso il Sud: Charlotte, Birmingham, Montgomery, Tuskegee, Little Rock. In quegli anni, visitare quella parte del paese significava per le persone nere correre seri rischi, come farsi piazzare una bomba sotto la macchina o ricevere un mattone in testa. «Prima di andare al Sud, dubito di aver saputo davvero cosa fosse il terrore».
Gli uomini e le donne del Sud che Baldwin incontra nei suoi viaggi risultano tanto più ammirevoli nei loro gesti di quotidiano eroismo, nell’affermazione ostinata della propria presenza nonostante la paura.
Gli incontri sono una parte fondamentale di Una strada senza nome, sia che si tratti di persone comuni e sconosciute, sia dei grandi nomi della storia che hanno incrociato il cammino di Baldwin. Malcom X, Martin Luther King, Medgar Evers vengono ritratti attraverso l’intimità dello sguardo di un amico. E attraverso il dolore della perdita e del sangue, a cui si aggiunge lo strazio di una comunità per cui questi uomini rappresentavano il cambiamento. Nell’ epoca di cui Baldwin ci consegna la sua testimonianza non erano rare le telefonate in cui si annunciava che un amico comune, attivista per i diritti civili o meno, era stato ammazzato. Oppure incarcerato, quasi sempre per un reato che non aveva commesso, come nel caso di Tony Maynard.
Le esperienze e gli aneddoti raccontati da Baldwin si intrecciano alle sue riflessioni sul potere e sulla violenza, sulla perennità dell’ingiustizia e sugli ostacoli verso la libertà. La lucidità e, purtroppo, l’attualità delle considerazioni di Baldwin puntano il dito contro una società talmente spaventata dal cambiamento che diventa pronta a tollerare l’ingiustificabile. Il privilegio dei bianchi e la negazione (fino alla dissoluzione) dell’esistenza nera fanno ancora parte del nostro triste presente. In America così come in altri luoghi del mondo. «Non ci sono prospettive chiare: la strada che sembra portare avanti nel futuro sta anche tornando indietro nel passato».
La spaventosa attualità dei racconti e delle riflessioni di Baldwin è materia su cui meditare a fondo. I diritti civili sono ancora oggi terreno di scontro. E la loro difesa dipende sempre di più dalla responsabilità di ciascuno di noi, se non vogliamo ridurli a carta straccia dentro le costituzioni o le leggi. La conoscenza è già una prima forma d’azione.
Giulia Della Michelina