Il Production Code, comunemente noto come codice Hays, dal nome del suo ideatore, dagli anni ’30 al finire degli anni ’70 ebbe in pugno le sorti della produzione cinematografica americana. La censura ad Hollywood aveva la sua ineluttabile legge. Norme che definivano tutto ciò che era moralmente accettabile e non tollerabile. Siamo sicuri che adesso non sia più così?
Il codice Heys
C’erano una volta i roaring twenties. Dove Hollywood e perversione andavano di pari passo nell’immaginario collettivo degli Stati Uniti del tempo. Uno scandalo dopo l’altro, abilmente cavalcato dai giornalisti, la “città del peccato” e l’industria cinematografica che la muoveva diventavano sempre più indigesta all’America Conservatrice. Ecco perché, per preservare l’industria cinematografica dalle ire dell’opinione pubblica, si optò per una decisa manovra di “eticizzazione” dei prodotti cinematografici, risultando in una sorta di autocensura nella forma pensata dalla Motion Pictures Producers and Distributors Association, guidata da William Hays. Proprio da lui prese il nome il codice che, dal 1930, sancì la nascita di una nuova Hollywood.
I principi base del codice Hays, o Production Code (poiché il rispetto delle regole era indispensabile per vedere il proprio prodotto pubblicato): vietato produrre film che possano abbassare gli standard morali degli spettatori. Esclusi quindi crimine, comportamenti devianti, male o peccato. Approvati solo stili di vita corretti, con alcune licenze per dramma e intrattenimento. Il terzo punto è il rispetto della legge umana e divina, che non dovrà mai essere ridicolizzata, ne promosso o sollecitata simpatia per la sua violazione.
La logica del mercato
A dare un sonoro scossone al codice, negli anni ’50, fu l’avvento della televisione e la sempre crescente importazione di film stranieri (Italia in testa). Queste misero a repentaglio le produzioni americane, sino ad allora padrone assolute dell’industria cinematografica mondiale, che a confronto apparivano vecchie e ormai superate. Il codice iniziò a scricchiolare con il successo, tra gli altri, dell’Italia rappresentata da Rossellini, e in tanti decisero di archiviare una moralità ormai superata per tornare a sposare prodotti più appetibili al grande pubblico. Negli anni ’60 (più precisamente nel ’67), la censura imposta dal codice arrivò alla fine per lasciare posto alla logica del mercato e del progresso della società, oltre che un nuovo sistema di catalogazione. Una logica che dura sino ai giorni nostri. Eppure…
E’ davvero finita la censura?
Guardando al codice Hays, è innegabile che chi oggi si trova nell’industria cinematografica goda di minori restrizioni. Ma è davvero così? Prodotti studiati e calibrati per appetire alle masse e godere di finanziamenti e promozioni. Lavori scomodi relegati alle nicchie perché non “vendibili”. Film vittime del politically correct. Opere, insomma, dove la creatività è stata sacrificata. Non è anche questa, forse, una forma di autocensura dal quale si credeva di essere uscita da decenni? La soglia del “buon costume” posta come soglia della libertà di espressione sembra spostarsi anno dopo anno..eppure, libertà e creatività sembrano essere due rette che, per quanto vicine, difficilmente finiranno mai con il toccarsi perfettamente.
Beatrice Canzedda