Mahmoud Darwish (1941-2008), grande figura poetica e politica, è stato uno dei simboli e delle voci della resistenza palestinese. Conosciuto in tutto il mondo e celebrato come uno dei più amati autori di lingua araba, ha cantato l’esilio e la sofferenza del suo popolo.
La Nakba e le prime opere
La famiglia del poeta era originaria di un villaggio dell’Alta Galilea, al-Birwah, distrutto nel 1948 durante la Nakba. Dopo essere scappati e aver vissuto in Libano da rifugiati (sorte comune a molti palestinesi) riuscirono a fare ritorno, illegalmente, in quello che ormai era diventato lo Stato d’Israele. Crescere in un paese che non era più il suo, nella terra dei propri genitori dove erano ormai considerati corpi estranei, la perenne sensazione di essere “un profugo nella propria patria” segnò indelebilmente il percorso di Darwish come uomo e come poeta.
– Perché hai lasciato il cavallo
alla sua solitudine, padre?
– Perché dia vita alla casa, figliolo.
Le case muoiono se parte chi le abita.
L’eternità apre le porteda lontano ai viandanti della notte.
Negli anni giovanili, a causa della sua attività poetica e patriottica, entra ed esce dalle carceri israeliane e questo gli impedirà di laurearsi. Con le sue poesie, in particolare con l’opera Foglie d’ulivo (1964), esplora l’identità nazionale palestinese e sostiene la lotta armata che si stava organizzando in quegli anni. In questa raccolta è contenuta Carta d’identità in cui l’orgoglio e la rabbia di un popolo sradicato risuonano potentemente.
Ricordate!
Sono un arabo.
E voi avete rubato gli orti dei miei antenati
E la terra che coltivavo
Insieme ai miei figli,
Senza lasciarci nulla
se non queste rocce,
E lo Stato prenderà anche queste,
Come si mormora.
Perciò!
Segnatelo in cima alla vostra prima pagina:
Non odio la gente
Né ho mai abusato di alcuno
ma se divento affamato
La carne dell’usurpatore diverrà il mio cibo.
Prestate attenzione!
Prestate attenzione!
Alla mia collera
Ed alla mia fame!
Il suo contributo alla resistenza proviene anche dall’attività giornalistica. Darwish collaborò con gli organi di stampa del Partito Comunista fin da giovanissimo. Si trasferì in seguito ad Haifa, dove scrisse prima per giornale al-Etteĥad (L’Unità), poi per la rivista al-Ĝad (Il Domani). In seguito assunse la direzione della rivista al-Jadid (La Novità).
Nelle sue prime opere, Darwish si mantiene vicino allo stile tradizionale: i versi terminano con una sola rima e tutti versi hanno lo stesso numero di piedi (unità metrica basata sulla quantità sillabica). A partire dagli anni 70 il poeta comincerà a sviluppare quello stile personale che ha reso la sua voce inconfondibile, attraverso l’uso del verso libero.
L’esilio e l’attività politica
Grazie all’affiliazione al Partito Comunista Darwish ebbe la possibilità di viaggiare, soprattutto nell’Europa dell’est e a Mosca, dove entrò in contatto con gli scrittori di quei paesi ma anche con autori arabi. Si trasferì per un periodo in Egitto, al Cairo, e poi in Libano, dove aderì all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Qui rimase anche durante l’invasione da parte dell’esercito israeliano nel sud del paese nel 1982, sostenendo la causa della resistenza palestinese. Questo periodo viene evocato dal poeta negli scritti Ode a Beirut (1982) e Madih al-zill al’ali (1983).
Solo una volta terminato il conflitto lasciò il Libano per proseguire la sua attività come membro del comitato esecutivo dell’OLP a Tunisi. Da qui assistette ad un altro evento cruciale della storia del conflitto, gli Accordi di Oslo del 1993, a cui si oppose fin dal principio al punto di dimettersi dal suo ruolo all’interno dell’OLP. Darwish, come molti altri, considerava ingiusti i termini dell’accordo oltre che inutili allo scopo della liberazione della Palestina per cui si era sempre battuto.
Potete legarmi mani e piedi
togliermi il quaderno e le sigarette
riempirmi la bocca di terra:
la poesia è sangue del mio cuore vivo
sale del mio pane, luce nei miei occhi.
Sará scritta con le unghie, lo sguardo e il ferro,
la cantero’ nella cella mia prigione,
[…] Ho dentro di me un milione di usignoli
per cantare la mia canzone di lotta.
«La mia poesia è una tenda per la nostalgia»
La poesia di Mahmoud Darwish è intrisa della solitudine dell’esilio e dell’amore per la propria terra, sempre presente e sempre perduta. Questa condizione, intima quanto collettiva, si riproduce nell’incessante processo della ricerca della propria identità, sospesa tra l’eredità e la costruzione.
Darwish diceva delle proprie poesie che non donavano solo immagini e metafore, ma paesaggi, villaggi e campi. I suoi versi distribuiscono luoghi, diventano, per chi li legge, casa. In lingua araba la parola casa (beyt) è la stessa usata per il verso poetico composto da due emistichi. Questa felice coincidenza della lingua trova piena risonanza nell’opera di Darwish, in cui molti palestinesi hanno potuto trovare una dimora. La sua poesia è una «tenda per la nostalgia», ricordo di case distrutte, di padri uccisi e di madri in fuga. Nostalgia dei figli che non faranno ritorno.
Mahmoud Darwish ha costruito la propria casa nella lingua: «Anâ loughatî», sono la mia lingua. Lingua che incarna la perdita e rende tangibile l’assenza, lingua che si fa azione poetica. Darwish era celebre per la sua capacità di declamare i propri versi di fronte a folle rapite, commosse o infiammate dalle sue parole e dalla sua voce.
L’azione poetica è però allo stesso tempo salvezza ed esilio: la poesia è una patria, ma non sostituisce la vera patria. La poesia e la scrittura saranno allora memoria, tracce di resistenza sotto la narrazione dei vincitori.
Dopo Yasser Arafat, Mahmoud Darwish è stato l’unica personalità palestinese a ricevere funerali di stato e per cui furono indetti tre giorni di lutto nazionale. Dopo una vita trascorsa da esule, il suo corpo riposa a Ramallah, nella sua terra di Palestina.
https://www.youtube.com/watch?v=WZ_3Nucq7zM&ab_channel=LisanArabiLTD
Giulia Della Michelina