Lo scorso 3 marzo la Corte Penale Internazionale (Cpi) ha aperto un’inchiesta su Israele per indagare i crimini di guerra nei territori palestinesi. L’indagine, annunciata dalla procuratrice capo della Cpi Fatou Bensouda, si propone di investigare sulle azioni militari e terroristiche avvenute in Palestina a partire dall’estate del 2014, a seguito dell’avvio della campagna militare israeliana nota come operazione “Protective Edge”.
I crimini in questione sono attribuiti tanto alle forze armate israeliane quanto all’organizzazione palestinese Hamas: tra questi si elencano rapimenti e omicidi programmati di soldati e civili, tortura e trattamento inumano e degradante nei confronti dei prigionieri, violazione della Convenzione di Ginevra con attacchi deliberarti a luoghi e individui da essa protetti.
Nonostante il focus dell’inchiesta sia sugli avvenimenti del 2014, essa approfondirà anche le reazioni sproporzionate di Israele nei confronti della Grande Marcia del Ritorno promossa da Hamas nel 2018 lungo la striscia di Gaza e, più in generale, la politica degli insediamenti israeliani in territorio palestinese.
Che cosa accadde nei territori palestinesi nel 2014?
Il 12 giungo 2014 tre adolescenti israeliani vennero catturati in Cisgiordania da un gruppo di militanti di Hamas: nei giorni successivi la tensione, già altissima, tra Israele e il nuovo governo palestinese, entrato in carica appena dieci giorni prima, portò il governo di Tel Aviv a rispondere con l’operazione “Brother’s Keeper”, che aveva lo scopo di colpire le cellule di Hamas nei territori cisgiordani, durante la quale persero la vita decine di palestinesi e vennero arrestati centinaia di membri e rappresentanti di Hamas.
La situazione esplose il 30 giungo, quando i corpi dei ragazzi vennero ritrovati nelle vicinanze di Hebron: nelle settimane successive si susseguirono lanci di missili su Israele da parte di Hamas e bombardamenti aerei israeliani sulla Striscia di Gaza. Tra il 7 e l’8 luglio, dopo la richiesta di Hamas di cessare il fuoco, il governo israeliano schierò migliaia di soldati lungo i confini dando il via all’operazione “Protective Edge”, che costò la vita ad oltre 2000 civili, tra cui 551 bambini, nella Striscia di Gaza.
Già nel 2014 il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite aveva dichiarato che sia Israele che Hamas si stavano macchiando di crimini di guerra, sottolineando in particolare come le forze armate israeliane avessero deliberatamente preso di mira luoghi come scuole, ospedali, aree residenziali e strutture delle stesse Nazioni Unite. Secondo i dati rilasciati dall’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari, circa 1.8 milioni di persone persero le proprie abitazioni e furono costretti al dislocamento, rimanendo privi di accesso all’acqua e a beni di prima necessità.
L’indignazione di Israele, l’approvazione della Palestina e i possibili scenari futuri
Fortissima la replica alla decisone della Corte Penale Internazionale da parte del premier israeliano Netanyahu, che non ha esitato ad accusare il tribunale di ipocrisia e antisemitismo. Secondo Netanyahu, aprire un’inchiesta su quanto avvenuto nel 2014 significa attaccare deliberatamente lo stato di Israele, paragonando i suoi soldati ai terroristi di Hamas e le azioni militari ad atti di terrorismo. Allo stesso modo il presidente dello Stato di Israele Reuven Rivlin e il ministro degli esteri Gabi Ashkenazi hanno annunciato che prenderanno ogni provvedimento necessario affinché l’inchiesta venga ritirata. Inoltre, Israele ha dichiarato che non collaborerà alle indagini in nessun modo e, anzi, ha già minacciato l’Autorità Nazionale Palestinese, nella figura di Abu Mazen, di ritorsioni qualora intendano collaborare con la Corte Penale Internazionale.
La risposta di Hamas è stata, al contrario, di incoraggiamento nei confronti della Corte dell’Aia: il portavoce Hazem Qassem ha dichiarato che la resistenza del popolo palestinese ai soprusi di Israele è del tutto legittima e ha esortato il Tribunale Internazionale a portare avanti l’inchiesta senza cedere a pressioni. L’Autorità Nazionale Palestinese ha salutato la notizia con gioia e soddisfazione, affermando che si tratta di un enorme passo avanti per il raggiungimento della giustizia e della pace.
L’apertura dell’inchiesta del Tribunale Internazionale costituisce un precedente storico nell’ambito del conflitto israelo-palestinese, tuttavia preoccupano le intenzioni di Israele di bloccarla ottenendo il supporto di altre nazioni. Già in passato l’amministrazione Usa di Trump si era schierata a favore di Israele e ieri 5 marzo 2021 la nuova amministrazione Biden ha prontamente riconfermato il proprio appoggio a Netanyahu contro la procuratrice Bensouda.
La reazione delle forze governative israeliane all’apertura dell’inchiesta affonda le sue radici nel problema del riconoscimento dell’autorità palestinese. Israele, ora appoggiato anche dagli Usa, sostiene l’illegittimità dell’indagine proprio perché, non riconoscendo il fatto che esista uno stato palestinese, non ritiene valido che esso faccia parte dello Statuto di Roma e non considera lecito l’intervento del Tribunale dell’Aia.
La questione della giurisdizione della Cpi e il riconoscimento della Palestina
Secondo quanto sentenziato dalla Corte Internazionale già il 5 febbraio 2021, i territori palestinesi occupati da Israele ricadono sotto la sua giurisdizione territoriale, compresi Gerusalemme Est, la Striscia di Gaza e la Cisgiordania. Dal momento che la Palestina è uno stato membro dello Statuto di Roma della Cpi dal primo aprile 2015, la Corte Penale Internazionale ha la facoltà di indagare qualunque tipo di crimine abbia avuto luogo sui suoi territori, nonché l’obbligo di intervenire qualora richiesto dalle autorità governative dello stato in questione.
La Corte può esercitare la propria potestà giudiziale solo sui crimini commessi a partire dall’entrata in vigore dello Statuto di Roma per il singolo stato membro, tuttavia il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha firmato l’accettazione della giurisdizione a partire dal 13 giungo 2014, con l’esplicito intento di lasciare via libera alla Corte di indagare le atrocità commesse nel corso delle operazioni strategiche militari “Brother’s Keeper” e “Protective Edge”. A differenza della Palestina, Israele è uno dei paesi, insieme anche a Cina e Usa, che non fanno parte dello Statuto di Roma e dunque non hanno accettato la giurisdizione della Corte Penale Internazionale sui propri territori nazionali.
Per quanto riguarda il riconoscimento della Palestina come Stato, la questione si fa più complessa. Fin dalla nascita dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) nel 1974, e in particolare dopo la dichiarazione di indipendenza del 1988, l’Onu ha sempre concesso alla Palestina lo status di “osservatore”. Nel corso dei decenni la posizione si è via via rafforzata fino alla risoluzione dell’Assemblea Generale 67/19 del 29 novembre 2012 che ha riconosciuto la Palestina come “Stato-non membro osservatore” delle Nazioni Unite, oltre a conferirle lo status di Stato membro all’UNESCO. In conseguenza di tale risoluzione, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), nata nel 1994 dopo gli Accordi di Oslo tra OLP e Israele, ha adottato la dicitura “Stato di Palestina” per tutti i documenti ufficiali.
Alla luce di tali riconoscimenti e dal momento che è stato affermato il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese, risulta evidente che nei territori palestinesi è in corso da anni un conflitto armato internazionale che, in quanto tale, andrebbe regolato dalla Convenzione di Ginevra del 1949. Nonostante ciò, l’esistenza dello Stato della Palestina come soggetto indipendente all’interno della Comunità Internazionale è tuttora materia di discussione: malgrado l’apertura delle indagini sia un segnale estremamente positivo, lo status giuridico della Palestina rimane in bilico e, con esso, i possibili esiti dell’inchiesta aperta dalla Corte Penale Internazionale.
Nonostante l’iter si preannunci lungo anni, qualora la Corte dell’Aia dovesse confermare i crimini di guerra ed identificarne i responsabili, sarebbero centinaia gli israeliani per i quali potrebbero venire emessi mandati d’arresto internazionali, compreso il ministro della difesa Benny Ganz, capo di stato maggiore nel 2014.
Marta Renno