La stranezza dei filosofi non è certo un mistero: fiumi d’inchiostro sono stati scritti sui gesti plateali e sui caratteri burberi e scostanti dei grandi pensatori. Per quanto riguarda il mondo antico, c’è un nome che sicuramente spicca sopra ogni altro per eccentricità: quello di Diogene di Sinope. Maestro d’istrionismo dalla battuta velenosissima, il filosofo cinico non si faceva certo problemi a deridere l’arroganza Alessandro Magno. Né a stuzzicare, con i suoi lazzi e le critiche alla Dottrina delle Idee, il celebre Platone. Ma chi fu davvero questo filosofo capace di far imbestialire i contemporanei suscitandone, al tempo stesso, la venerazione?
Un vecchio si aggira, in pieno giorno, reggendo una lanterna accesa davanti a sé: i suoi occhi, terribili, ardono ancora più intensi della fiamma. È Diogene di Sinope: uomo integerrimo e ammirevole per alcuni, pervertito pazzo furioso per altri. A chi gli chiede cosa stia facendo, portando inutilmente un lume sotto la luce del sole, Diogene risponde di essere impegnato a “cercare l’uomo”. In molti prendono la risposta per l’ennesimo delirio di un vecchio stravagante probabilmente ormai del tutto rimbecillito. Invece, quella di Diogene è una provocazione filosofica e, a un tempo, una sfida etica lanciata agli osservatori. Per capire di cosa si tratta, però, occorre esaminare un po’ più da vicino la vita e la riflessione di questo sapiente fuori dagli schemi.
Quando un equivoco è destino: Diogene di Sinope, falsario e sovvertitore per volere di Apollo
L’esistenza di Diogene non fu, almeno all’inizio, quella di un filosofo. Da giovane, infatti, (secondo Diogene Laerzio) lavorava con il padre Icesio, responsabile del Tesoro di Stato di Sinope, colonia greca del Ponto. Approfittando della sua inesperienza, alcuni operatori finanziari presero a fargli pressioni affinché contraffacesse la moneta di Stato. Così, roso dai dubbi, il giovane si recò a Delfi per consultare l’oracolo di Apollo su come comportarsi. Nella scelta delle parole, però, fu poco accorto: una leggerezza imperdonabile quando s’interroga su qualcosa di importante un dio che si esprime per enigmi. La sua domanda, infatti, suonava all’incirca così: «Devo alterare il politikòn nomìsma?». Peccato che politikòn nomìsma significhi tanto “conio di Stato” quanto “convenzione dello Stato“. Rispondendo in modo affermativo, Apollo invitava Diogene non a falsificare la moneta, bensì a mettere in discussione gli usi e i costumi della città.
Avendo completamente frainteso il senso del responso, tornato a Sinope Diogene contraffece la moneta e, com’era prevedibile, la cosa non finì bene. Quando l’illecito fu scoperto, infatti, Icesio – probabilmente ignaro di tutto – finì in catene mentre il giovane, coperto di vergogna, fu costretto all’esilio. Così moriva il tesoriere; di lì a breve, giunto ad Atene, sarebbe cominciata la vita del filosofo.
Un topo e un maestro riluttante: un’atipica formazione filosofica
L’arrivo nell’Attica, in verità, non fu del tutto indolore. Appena sbarcati, infatti, a Diogene toccò constatare la fuga di Mane, suo schiavo, che doveva essersi ritenuto affrancato dal rovescio di fortuna del padrone. Il futuro filosofo commentò l’accaduto con un’alzata di spalle, dicendo:
Se Mane può vivere senza Diogene, perché mai non dovrebbe poter vivere Diogene senza Mane?
Del resto, in base alle informazioni di Diogene Laerzio e del filosofo Teofrasto, il giovane esule pareva temprato più che abbastanza per la nuova vita. Dove non arrivava il carattere, poi, arrivarono i suggerimenti della natura. Infatti, sembra che osservare l’esistenza semplice, umile e guidata dall’istinto di un topolino sia stato di grande ispirazione per Diogene nell’affrontare le circostanze. Così come di grande ispirazione fu certamente l’incontro con il filosofo Antistene, fondatore della scuola cinica. Per la verità quest’ultimo, ex sofista e discepolo di Socrate, non desiderando alcun seguace non era affatto entusiasta di quel nuovo allievo straordinariamente importuno. Ma ogni tentativo del filosofo del Cinosarge di allontanare Diogene fu vano; infatti, come racconta Diogene Laerzio
una volta, mentre Antistene gli brandiva contro un bastone, Diogene chinò il capo e disse: «Picchia quanto ti pare! Non troverai un legno duro abbastanza da convincermi a stare alla larga, finché mi sembrerà che tu dica qualcosa di valido e importante.»
Cosicché, un po’ per rassegnazione e un po’ per malcelata simpatia, Antistene dovette risolversi ad accettare Diogene come allievo. Constatando, stupefatto, che quel discepolo dal carattere ruvido come il suo mantello non si limitava ad applicare senza difficoltà i suoi insegnamenti. Addirittura, Diogene di Sinope lo superava in rigore e semplicità di vita. Avviandosi a diventare, con le sue caustiche critiche alla moralità pubblica della città, il più eversivo degli eredi della lezione socratica.
La filosofia di Diogene di Sinope: un amore viscerale per la libertà
Scrive Diogene Laerzio che Platone, interrogato su che tipo di persona gli sembrasse Diogene, abbia risposto lapidario:
Un Socrate impazzito.
Anche se tra i due non correva buon sangue, il giudizio del fondatore dell’Accademia non è esagerato dal risentimento. Né, del resto, del tutto privo di una certa ammirazione, soprattutto se si pensa all’importanza che ebbe Socrate nella sua formazione. Perché, però, diceva questo? Come mai Diogene appariva tanto folle? Ora, quando si pensa al Cinico per antonomasia, è importante capire che in lui non esisteva alcuna distinzione tra pensiero e vita. Diogene, cioè, prima di scrivere o insegnare la propria filosofia, la incarnava. In modo spettacolare, disturbante, scandaloso: ad esempio masturbandosi e facendo i propri bisogni in pubblico, scegliendosi come casa una botte, sputando in faccia ai benpensanti. Puro gusto della provocazione, cafonaggine elevata a sistema di pensiero? In realtà, c’è molto di più.
Diogene era di certo un istrionico provocatore, ma non per semplice esibizionismo. Il suo scopo era convincere tanto gli Ateniesi quanto, successivamente, i Corinzi della regressività della società. Più l’ordine politico e sociale – e, con esso, la gerarchia dei bisogni umani – si complica, meno è probabile raggiungere la saggezza. Saggio, virtuoso e perciò felice, dunque, è in questa prospettiva solo chi sa rendersi indipendente dalla società e liberarsi dal vincolo dell’ossessiva ricerca dei piaceri. Ecco, pertanto, il significato tanto dei continui oltraggi alla decenza e al senso comune quanto di quella ricerca condotta in pieno giorno armato di lanterna. Come spiegano Giovanni Reale e Dario Antiseri,
«Cerco l’uomo» significa questo: cerco l’uomo capace di vivere secondo la sua più autentica natura. Che, al di là di tutte le convenzioni e le regole sociali, così come oltre il capriccio della sorte, sa ritrovarsi. Cerco l’uomo che vive conformemente alla sua vera natura.
L’uomo del quale il filosofo andava in cerca, in altri termini, era qualcuno che gli somigliasse. Qualcuno che amasse la libertà tanto visceralmente da non essere disposto ad accettare alcun compromesso, nemmeno se si trattava delle condizioni imposte dal vivere civile.
Schiavo e suicida: una fine meno paradossale di quel che sembra
Diogene di Sinope morì suicida e schiavo alla veneranda età di novant’anni. Fino a qui abbiamo raccontato, allora, la vita di un ipocrita? Niente affatto. Al suo padrone, Seniade di Corinto, e ai suoi figli, dei quali fu il precettore, il filosofo rivoluzionò la vita educandoli alla propria libertà anticonformista. Del resto, al banditore che lo stava vendendo a Creta dopo essere stato catturato dai pirati viaggiando verso Egina, Diogene l’aveva detto:
vendimi a quel tale, quello che indossa una veste pregiata di porpora. Sembra proprio che abbia bisogno di un padrone e si dà il caso che il mio talento sia comandare gli uomini.
La libertà del filosofo era una condizione anzitutto e soprattutto interiore. Atene, Corinto o qualsiasi altro luogo per Diogene si equivalevano. Del resto, il filosofo fu il primo a definirsi «cittadino del mondo». Con tanti cari saluti alle rigide appartenenze che tradizionalmente caratterizzavano l’identità personale e i rapporti sociali tra i Greci. Quel genere di libertà non sarebbe potuta essere scalfita da alcuna schiavitù. Così, come ad Atene anche a Corinto Diogene continuò a praticare le virtù dell’autocontrollo e dell’autosufficienza, raccogliendo discepoli attorno a sé e scandalizzando i cittadini. Almeno finché ne ebbe le forze.
Ammantato dal mito come un eroe omerico, esistono diverse versioni sulla morte di Diogene. Secondo alcuni, fu del cibo crudo a stroncarlo; per altri, come per contrappasso, un’infezione seguita al morso di un cane. La più coerente con il pensiero del filosofo, però, è raccontata dallo storico Antistene di Rodi. Secondo lui, quando sentì che era giunta la sua ora, Diogene semplicemente scelse di morire trattenendo il respiro. Dando prova che, pur essendo la natura preferibile alla convenzione, l’istinto di sopravvivenza non deve prevalere sulla libertà e la dignità.
Scambi di (s)cortesie con il creatore di un impero: l’attualità di Diogene
Cosa c’insegna, oggi, la figura ribelle e anticonformista di Diogene di Sinope? Per capirlo, è interessante riflettere sulla sua relazione con Alessandro Magno, l’uomo più potente del suo tempo. Nelle Vite Parallele, Plutarco racconta che
il re Alessandro in persona andò da lui e lo trovò disteso al sole. Al giungere del seguito, Diogene si levò un poco a sedere e guardò fisso Alessandro. Questi lo salutò e gli chiese se aveva bisogno di qualcosa. Diogene rispose: “Scostati un poco dal sole”. Si dice che Alessandro rimase colpito da quella risposta e ammirò enormemente la grandezza d’animo di quell’uomo, anche se il filosofo evidentemente lo disprezzava. Tanto che mentre i compagni, al ritorno, deridevano il filosofo e lo schernivano, il re disse: “Se non fossi Alessandro, io vorrei essere Diogene”.
Il filosofo di epoca romana, tuttavia, forse offre di quel rapporto un resoconto un po’ troppo idilliaco. Diogene, infatti, non aveva alcun rispetto per l’autorità e il potere costituito, mentre Alessandro si avviava a diventare un sovrano assoluto venerato come un dio. Più verosimile, allora, si presenta il racconto di Diogene Laerzio. Secondo lui Alessandro, irritato dalla mancanza di rispetto del filosofo, per insultarlo dandogli del “cane” gli fece portare un vassoio pieno di ossi. Accettando, Diogene gli avrebbe fatto riferire questo messaggio:
Degno di un cane il cibo, ma non degno di un re il regalo.
Forse, in fondo, è proprio questo il cuore della lezione che Diogene il Cinico come parresiaste ci lascia in eredità. Sforzarci di renderci migliori ogni giorno badando a ciò che conta davvero e tutelando la nostra dignità è il nostro primo dovere verso noi stessi. Nell’adempierlo, non dovremmo mai sottovalutare l’importanza di coltivare un’autoironia tenace e un po’ anarchica, pronta per ogni evenienza.
Valeria Meazza