Clara Ceccarelli, uccisa a Genova dall’ex compagno, è la nona vittima dei femminicidi in Italia nel 2021. Il dettaglio agghiacciante, però, se la sola storia non basta, è che la signora Clara due settimane fa si era pagata il funerale: non è forse questa la massima espressione di un terrore che si trasforma in rassegnazione?
Immaginatevi cosa dev’essere alzarsi una mattina, cercare un indirizzo o un numero di telefono, vestirsi, uscire. E andarsi a pagare il funerale. Presentarsi all’ufficio, spiegare la situazione a un solerte impiegato, prendere accordi per quel che succederà quando succederà. Sapere che non è più questione di “se”, ma solo di “quando”. Firmare l’assegno o fare il bonifico. Tornare a casa.
E aspettare.
Aspettare che la morte tanto minacciata arrivi, dietro a ogni angolo. Camminare per strada, voltandosi ogni due passi. Fare le scale del palazzo in fretta. Tenere l’orecchio teso in casa, pronto a cogliere ogni scricchiolio del pavimento. Immaginarsi la scena, chiedersi forse quando e come avverrà, ma sapere già per mano di chi. Sapere che è questione di ore, forse di giorni.
E passare così due settimane della propria vita.
Aver passato, a dire il vero, gli ultimi dodici mesi della propria esistenza. Sentirsi più pesanti e allo stesso tempo più leggeri: una leggerezza di piombo, la consolazione tagliente di sapere che quando succederà, perché succederà, la famiglia non dovrà occuparsi di nulla. Essersi pagata il funerale. Aver pensato a un tutore per il proprio figlio disabile. Aver trovato un posto per la cura di un genitore anziano. Sperare che il momento arrivi presto, perché non è possibile passare un’ora di più con questo fardello. Alzarsi, ogni mattina, e chiedersi: “Sarà oggi?”. Guardare il telegiornale e sentire un brivido alla notizia dell’ennesima donna uccisa e cambiare frettolosamente canale, senza poter evitare di dirsi: “Parleranno anche di me?“. Chiudere il negozio la sera, salutare il vicino, uscire dal supermercato e domandarsi: “Sarà l’ultima volta?”.
La storia di Clara Ceccarelli
Questo è l’inferno che deve aver passato Clara Ceccarelli, la donna di 69 anni uccisa a Genova con più di trenta coltellate dal suo ex compagno, Renato Scapusi. Glielo aveva promesso. Dopo la fine della relazione con Clara, l’uomo aveva iniziato a perseguitarla con telefonate, minacce e atti di vandalismo alla vetrina del negozio di pantofole che Clara aveva in città. La donna aveva denunciato un danneggiamento e aveva detto di avere dei sospetti sull’ex compagno. La denuncia era stata archiviata.
Si poteva fare di più?
Ed è sempre la stessa domanda che torna, pressante, dopo ogni femminicidio nel nostro Paese: si poteva fare di più? Clara stessa poteva fare di più? Le persone attorno a lei potevano fare di più? La storia di Clara Ceccarelli ha in sé un particolare ancora più agghiacciante che fa capire molto del tessuto in cui maturano i femminicidi: la storia di Clara non è più una storia di terrore. Clara non aveva più paura, Clara era semplicemente rassegnata di fronte a quello che considerava inevitabile. Deve aver pensato che in Italia, per le vittime di violenza, è solo questione di tempo.
La massima espressione della solitudine
Forse allora la domanda da porsi realmente ruota attorno all’ineluttabilità di quello a cui Clara si sentiva destinata e di cui l’essersi pagata il funerale è solo la punta dell’iceberg. Il non parlarne con nessuno, il non cercare più un aiuto, il sapere che oltre a tanti begli slogan e belle iniziative, poi, la solitudine è l’unica vera compagna di chi le minacce le riceve davvero: sono tutti gli elementi che rendono la storia di Clara simile a tante altre storie, che liquidiamo velocemente sotto le categorie di “raptus” o di “delitto passionale”.
La retorica del raptus
Cosa c’è di non premeditato, di non strategico in uno stillicidio che si trascina per un anno sotto forma di minacce? Qual è il lato passionale degli omicidi che il giornalismo accompagna sempre con frasi come “Nessuno poteva immaginare” o con la retorica stucchevole del “dramma della gelosia”? È un linguaggio che risente, ancora oggi, delle nostalgie del “delitto d’onore“, che accorpava in sé tutti quei crimini consumati per punire condotte disonorevoli da parte di donne, compagne o mogli.
La trappola del movente
Nell’omicidio di Clara, come in tutti gli altri femminicidi, cercare un movente è una trappola: “lui voleva tornare con lei”, “lui non sopportava la separazione”, “lui aveva una brutta situazione economica” sono tutte giustificazioni ingannevoli. Il movente, quando lo cerchiamo, rischia sempre di collocarsi in una rappresentazione dell’amore che ammette la violenza, come mezzo per tenere la vittima stretta al carnefice.
La polvere sotto il tappeto
La stampa, ancora una volta, nel ricostruire quello che è il passato dell’assassino, mette l’accento sui sentimenti e sulle frustrazioni dell’uomo omicida e cancella la vita e i desideri di Clara e delle altre vittime. Si parla della storia di Clara e del fatto che si fosse pagata il funerale: si vede l’atto isolato di un singolo, cercando di far finta che il problema non abbia radici culturali o materiali, attecchite e ben coltivate nel fertile terreno del patriarcato.
Italia 2021
Un allarme inascoltato