L’opera che vediamo in copertina è La fiera equina, un dipinto conservato a New York realizzato tra il 1853 e il 1855 da Rosa Bonheur, una delle maggiori pittrici di tutti i tempi: è per caso una tranquilla scena di affetti domestici? O raffigurante uno struggente amore? No, La fiera equina è dinamismo puro, è cavalli – il simbolo della forza e della guerra – che impazzano facendo sollevare la terra dal suolo, mentre i loro padroni non riescono a tenerli a bada.
Ma allora è opportuno associare indistintamente i caratteri di eleganza e pacatezza alle opere realizzate da donne? Ovvero, ci sono dei caratteri comuni nelle opere realizzate dalle donne in quanto donne? E ancora, cos’ha permesso a Rosa Bonheur di emergere dal mucchio di artiste donne dimenticate in quanto donne? Il privilegio di nascita o il “talento”? Sempre ammesso che il talento riesca a contare qualcosa, in una società che attua di fatto una discriminazione sistematica nei confronti del genere femminile.
“Perché non ci sono state grandi artiste?” non è solo una domanda scomoda, ma anche il titolo di un importante saggio di Linda Nochlin
Linda Nochlin è una storica dell’arte americana, tra le massime esperte di critica femminista e di cultural studies. Con il suo saggio Perché non ci sono state grandi artiste, pubblicato per la prima volta nel 1971, può aiutarci a rispondere a tutte le domande che abbiamo posto prima, con una prospettiva nuova e sincera, anzi, disincantata.
La storica dell’arte ritiene che la domanda è formulata in modo sbagliato, ed è per questo che gli storici dell’arte non sono pervenuti a una risposta soddisfacente; eppure è proprio da questa domanda che parte per smascherare tre grandi falsità: la prima è che non sarebbe vero che non ci sono state grandi artiste, ma semplicemente non sono state ricordate perché la forza del male ha voluto così. La seconda, che molte artiste sembrerebbero mediocri solo perché sono valutate con un “metro di valutazione maschile”. E infine la terza: che il grande artista sarebbe il genio, un creatore divino, una natura apparentemente miracolosa il cui successo è slegato dalle strutture sociali, per citare le sue parole.
Lodevoli gli studi su Artemisia Gentileschi e Angelika Kauffmann, ma la verità è che molte grandi artiste da ricordare non ci sono, e per precise cause sociali
, o almeno per quelle orgogliose. Così, le femministe sono solite rispondere sbuffando e sbattendo i piedi per terra, ripescando nomi caduti nell’oblio, o elevando carriere di fatto modeste.
Ma non è questa la soluzione, dal momento che gli studi su artiste come Artemisia Gentileschi e Angelika Kauffmann ampliano sicuramente il panorama della storia dell’arte in generale, ma di fatto ci sono molte più pittrici e scultrici minori. Continuando a citare la Nochlin, non abbiamo un corrispettivo femminile di Michelangelo o Rembrandt. Ed è così non perché le donne non siano capaci di grandezza, ma perché è stata preclusa loro qualsiasi opportunità di realizzare opere grandi.
Basti pensare al fatto che alle artiste donne non era concesso partecipare agli studi del nudo dal vivo per cause di pudore, studi che non potevano essere sostituiti da null’altro per non intaccare l’idea di bellezza neoclassica. Così, le donne dovevano ripiegare su generi minori, come le nature morte e le pitture di genere, quelle nelle quali proprio Rosa Bonheur riuscì ad eccellere. Produrre arte vuol dire acquisire un linguaggio formale attraverso lo studio, ed esserne esclusi voleva dire non poter fare parte di quel mondo.
Non è stato così ovunque, ad esempio in letteratura abbiamo una Emily Dickinson e una Virginia Woolf. Questo perché a tutti era concesso leggere, scrivere e mettere per iscritto le proprie esperienze.
Allo stesso modo potremmo chiederci perché non ci sono stati grandi artisti fra gli aristocratici, ma la risposta è ancora di natura sociale
Gli aristocratici, come le donne, dovevano adempiere a una serie di compiti e doveri che precludeva loro la possibilità di soddisfare la totale dedizione che la professione di artista richiede. È così necessaria un’analisi sociologica, delle condizioni in cui i cosiddetti grandi artisti operavano e che hanno permesso loro di emergere: non è un caso che spesso non fossero né aristocratici, né donne, ma figli di altri artisti – è stato così per Picasso, per Durer, per Bernini e molti altri.
“L’arte, sia per quanto riguarda l’evouzione dell’artista sia per la natura e la qualità dell’opera in sé, è l’esito di una situazione sociale, della cui struttura è un elemento integrante” , sostiene Nochlin.
In questo modo possiamo divincolarci dal mito del grande artista, del talento che ha la forza di spazzare via qualsiasi ostacolo, e che forse semplicemente alle donne manca, altrimenti sarebbe emerso. Un bel mito, ma sicuramente poco veritiero. Anzi, non solo il talento nelle donne c’è, ma è anche unico e irripetibile, in ognuna di esse come in ogni essere capace di creare qualcosa: non esiste quindi uno stile riconoscibile come femminile, quindi non c’è metro di valutazione “maschile” dal quale le artiste possono venire escluse.
Il vero miracolo risiede nelle artiste che nonostante gli ostacoli hanno tentato, e hanno raggiunto il successo
Eppure c’è qualcosa che accomuna le artiste di successo: il senso di colpa per aver evaso le aspettative sociali che sono state inculcate loro dalla nascita, e che continuano a essere inculcate, per le quali è naturale che una donna abbandoni la carriera una volta approdata al matrimonio, e che si occupi di tutto fuorché di sé stessa. “Tutto quel che è abituale sembra naturale”.
“Perché non dovrei sentirmi fiera di essere una donna? Mio padre mi ripeteva sempre che la missione delle donne è di elevare la razza umana”
Dichiara Rosa Bonheur al suo biografo, dopo aver smentito la notizia di lei che in gioventù andava in giro con i capelli corti sino al collo, quasi si trattasse di un crimine.
Francesca Santoro