Siamo soliti pensare la democrazia ateniese come modello ispiratore delle democrazie occidentali. Le siamo debitori di principi a partire dai quali le moderne costituzioni hanno preso forma: uguaglianza, libertà, partecipazione dei cittadini al governo dello Stato. Ma siamo sicuri che la democrazia ateniese fosse davvero ciò che crediamo?
Quando pensiamo alla democrazia ateniese, solitamente lo facciamo nei termini dell’encomio di Atene contenuto nell’immortale Epitaffio di Pericle:
La nostra forma di governo non invidia le costituzioni dei vicini, perché noi non imitiamo gli altri: offriamo l’esempio. Si chiama “democrazia” poiché è amministrata non per il bene di poche persone, ma della collettività. Di fronte alle leggi tutti godono di uguale trattamento. E se uno ha buona fama e si distingue in qualche campo, non per il suo partito ma per il suo merito lo preferiamo nelle cariche pubbliche. Del resto, la povertà e l’oscurità di nascita non ostacolano mai chi può essere utile alla città. […] Noi amiamo il bello, ma con misura; coltiviamo il sapere e la filosofia, ma senza mollezza. […]. Le persone da noi si curano nello stesso tempo degli interessi privati e delle questioni pubbliche. I privati cittadini sono tutti perfetti conoscitori dei problemi politici, perché consideriamo il cittadino che non se ne cura non un uomo pacifico, ma inutile.
Tucidide, La guerra del Peloponneso, II, 35-37
Libertà, uguaglianza, pari responsabilità dei cittadini nella gestione dello Stato: queste caratteristiche fanno della democrazia ateniese un modello ispiratore imprescindibile per le democrazie occidentali. Almeno sulla carta. Nei fatti, però, il regime di Atene non è sempre stato visto come un faro di civiltà neppure dai suoi stessi cittadini. Alcuni, anzi, lo hanno aspramente criticato, raccontando in proposito una storia molto diversa dal discorso del celebre politico. In questi resoconti la democrazia ateniese, lungi dall’essere un esempio paradigmatico, risulta invece una piaga: semplicemente, il governo dei peggiori.
Per un bizzarro scherzo del destino, a raccontarci meglio la nefandezza della democrazia ateniese è la più antica prosa attica giunta fino a noi. Cioè il trattatello Costituzione degli Ateniesi, databile a prima del 424 a.C. e tramandato tra le opere di Senofonte, anche se oggi ritenuto spurio. Non un nome, dunque, né una data precisa accompagnano un’opera resistita nei secoli per la tesi eversiva e spiazzante che propone.
Secondo l’anonimo ateniese, infatti, la democrazia della sua città è un sistema di governo deprecabile dal funzionamento perfetto. A renderlo perfetto è la sua granitica coerenza interna, a causa della quale questo regime risulta immodificabile. Questa la tesi dell’opera, fatta emergere magistralmente da un dialogo serrato tra un acuto sostenitore dell’oligarchia, che si fa portavoce dell’anonimo, e un aristocratico intransigente.
Oligarchico:
Alcuni si meravigliano che gli Ateniesi diano in ogni campo più spazio alla canaglia e ai poveri che alla gente per bene. Eppure, è proprio così che tutelano la democrazia. Giacché, se sta bene e si accresce la peggiore tra la gente del popolo, allora si rafforza la democrazia ateniese.
[…]
Aristocratico:
Uno, però, potrebbe dire che non si dovrebbero lasciar parlare tutti indiscriminatamente all’assemblea, o farli accedere al Consiglio, ma consentire ciò solo ai migliori.
Oligarchico:
Ma proprio perché nell’assemblea lasciano parlare anche la canaglia si regolano nel modo migliore. Se all’assemblea parlasse solo la gente per bene, […] gioverebbe solo ai propri simili e non a tutto il popolo. Invece, così, qualunque ceffo può prendere la parola e perseguire l’utile proprio e di chi gli somiglia. […] I malvagi, in maggioranza, sanno che la stupidità, l’immoralità e la benevolenza di quest’uomo giova loro più che la virtù e la saggezza degli onesti.
Aristocratico:
Insomma il popolo non vuole essere sottomesso in una città retta dal buon governo, ma libero e capace di comandare. Pazienza se ciò si risolve nel malgoverno!
La critica dell’anonimo ateniese è caustica: «Se è il buon governo che tu cerchi» dice l’oligarchico «non lo troverai qui. Vedresti uno scenario ben diverso: i più capaci a legiferare e la brava gente a farla pagare alla canaglia. E gli onesti prenderebbero le decisioni politiche, non permettendo a degli scellerati di sedere nel Consiglio o di parlare nell’assemblea».
Il popolo di Atene, invece,
sa ben distinguere gli onesti dai criminali. Eppure, predilige i benevoli e gli utili ai suoi scopi, quale che sia la loro estrazione sociale. Non sopporta chi è una persona per bene proprio per la sua onestà: ritiene, infatti, che la virtù sia più che altro un ostacolo all’interesse collettivo.
Queste parole amarissime, va precisato, sono quelle di un uomo con una visione rigidamente classista della società. Un aristocratico, probabilmente un esule scacciato da Atene dopo la vittoria della fazione democratica. Una situazione non infrequente nell’Atene del V secolo. Del resto, come fa notare lo storico Luciano Canfora, «l’intolleranza è la forma stessa della lotta politica dell’epoca, soprattutto in tempo di guerra». Una considerazione che apre spiragli inquietanti sul significato e il contesto di un termine che siamo abituati a percepire come positivo.
«Demokratia», spiega Luciano Canfora, «nasce come parola di rottura, non di convivenza. Esprime la prevalenza di una parte, non la partecipazione paritetica di tutti alla vita della città».
Il termine, infatti, puntualizza lo studioso, originariamente di per sé non contempla neppure una implicita legittimazione derivante dal concetto di “maggioranza”. Già il filosofo Aristotele nella Politica era stato molto esplicito in proposito, affermando:
Non si deve definire la democrazia, come sono soliti molti oggi, come “il predominio dei più numerosi”.
Politica, 1290 A
Per “democrazia” si deve invece, secondo lo stagirita, intendere il “predominio del demo“. Cioè un controllo totalizzante ed esclusivo delle magistrature e della vita pubblica della città da parte di coloro che devono lavorare per vivere. Ciò esclude naturalmente gli aristocratici e i ricchi, a meno che costoro non dimostrino una lealtà incondizionata al popolo. In caso contrario, la sorte di costoro è quella di essere marginalizzati dalla vita politica, nonché vessati a scopo preventivo o esiliati.
Rivisitata attraverso gli occhi dello Pseudo-Senofonte, la democrazia ateniese assume caratteri perturbanti. Il più spaventoso dei quali, forse, è una tensione insolubile tra uguaglianza, capacità personali e libertà.
Il discorso di Pericle per i caduti nel primo anno del conflitto contro Sparta (431- 430 a.C.) presenta la democrazia ateniese come culla della libertà. Tra i cittadini vigono rapporti di parità: il successo e l’accesso alle cariche pubbliche dipendono solo dal risultato di una gara tra le capacità individuali. Nel resoconto dell’anonimo, però, la democrazia respinge recisamente il principio liberale di un confronto a partire da un punto di partenza uguale. Non solo: la democrazia descritta nella Costituzione degli Ateniesi è anti-individualistica, osteggia il successo e il valore del singolo. E percepisce ogni differenza di capacità e competenze come una minaccia al principio di uguaglianza. L’egemonia della massa che limita, attraverso il controllo sociale, la libertà individuale è ancora lontana nel tempo. Così come è lontano il demagogico «uno vale uno» che si fa baluardo dell’incompetenza. Eppure, la loro origine potrebbe trovarsi proprio qui.
La democrazia ateniese, dunque, è da buttare?
In verità, no. Al contrario, essa va esaminata attentamente. Perché, che lo vogliamo o no, le altamente imperfette democrazie nelle quali viviamo sono, attraverso contorte vicende durate millenni, sue discendenti. E perché la democrazia ateniese ci viene costantemente additata, non sempre in buona fede, come uno dei principali modelli ispiratori del nostro sistema politico. Perciò, oggi soprattutto, è fondamentale comprendere le virtù di quel regime non meno dei vizi che, come tare genetiche, potrebbero essersi trasmessi anche a noi. Perché se dobbiamo ripensare, anche radicalmente, concetti quali “uguaglianza” e “libertà”, ormai apparentemente svuotati di significato, non possiamo ignorarne le vicissitudini. Anche quando ciò comporta smantellare uno dei nostri miti fondativi. Nella consapevolezza che, come vuole un famoso detto di Winston Churchill:
La democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre forme che si sono sperimentate fino a ora.
Discorso alla Camera dei Comuni, 1947
Valeria Meazza