Negli ultimi giorni abbiamo assistito alla crescita vertiginosa di alcuni social network alternativi a Facebook e Twitter. Parler, il più famoso tra questi, è stato per breve tempo la scialuppa di salvataggio di Donald Trump. Ma non solo Parler: complottisti e ultradestra hanno a loro disposizione anche altri social, come MeWe e Rumble. Hanno tutti una caratteristica in comune: una (quasi) totale assenza di regole. Niente controlli e nessuna censura nel paradiso di estremismi e fake news. Vediamo di che cosa si tratta.
Il social dei complottisti, prima di MeWe e Rumble: Parler
Non possiamo che cominciare con Parler, da poco messo completamente offline da Amazon, che gestisce i server su cui il social è ospitato. Il gesto è stato motivato dalla presenza di post inneggianti alla violenza, in contrasto con i termini di servizio di Amazon Web Services. La causa scatenante, in realtà, è stato il trasloco di Trump sulla piattaforma dopo il ban di Twitter, a seguito dell’assalto a Capitol Hill da parte dei suoi sostenitori lo scorso 6 gennaio. Il social è scomparso anche dagli store di Apple e Google. Ma cos’è (o cos’era) Parler?
È una piattaforma molto simile a Twitter: “Parleys” di 1000 caratteri al posto dei Tweet, possibilità di “votare” o “riecheggiare” i post di altri utenti (i “Parleyers”) e servizio di messaggistica diretta. Oltre a questi motivi, a convincere Trump a trasferirsi su Parler c’è stato dell’altro.
Non ha infatti giocato a sfavore il posizionamento conservatore della piattaforma, che ha spesso bandito utenti dalle idee più liberali. E che non si chiami in causa la libertà di espressione. Il social, fondato nel 2018 dalla miliardaria repubblicana Rebekah Mercer, ha infatti numerose regole. Niente propaganda terroristica, minacce o diffamazioni, no alla pornografia, nessun incentivo all’uso della droga. Via libera, in compenso, a post razzisti, negazionisti, antisemiti e complottisti. Parler è stato infatti anche il rifugio dei sostenitori di QAnon. Quest’ultima è la teoria del complotto secondo cui i poteri occulti (Deep State) e il nuovo ordine mondiale controllebbero il mondo e agirebbero contro Trump, il quale si sarebbe posto il compito di combatterli.
Parler non è più disponibile per il download, ma una volta risolto il problema dell’hosting dei server l’accesso sarà nuovamente disponibile per coloro possiedono già l’applicazione. Insomma, probabilmente sentiremo ancora parlare di Parler (sic).
MeWe, l’alternativa a Facebook
“Nessuna pubblicità, nessun targeting, nessun riconoscimento facciale e nessuna manipolazione del flusso di notizie”: sono queste le promesse di MeWe. Più vecchio di Parler (è stato fondato nel 2012), MeWe ha iniziato a far parlare di sé solo dopo la (temporanea?) scomparsa del principale social dei complottisti. Nasce come anti- Facebook, cui assomiglia molto tra post, foto, chat e GIF. La differenza sta nel trattamento della privacy: esistono delle chat “segrete” (a pagamento) il cui particolare algoritmo garantisce la riservatezza della conversazione.
La popolarità di MeWe è aumentata nel corso del 2020, quando ha iniziato ad ospitare sostenitori di Trump e complottisti. La piattaforma non è nata esplicitamente per la destra, ma molti utenti di questo fronte politico hanno iniziato a iscriversi, soprattutto dopo che Facebook ha oscurato le fake news sul vaccino anti-Covid. Dopo il silenziamento di Parler, MeWe sostiene di avere guadagnato 400.000 followers al giorno, superando i 14 milioni di iscritti.
C’è però da dire che il CEO di MeWe, Mark Weinstein, ha espresso l’intenzione di voler aumentare i servizi di controllo e moderazione del social. «Gli utenti di MeWe hanno diverse idee politiche» ha aggiunto, «non ci sono solo trumpisti».
Lo Youtube della destra: Rumble
La triade dei social del complottismo termina con Rumble. Quest’ultimo social è incentrato sui video ed è più simile a YouTube, ma anche qui vige la regola del “non ci sono regole”. Si è autodefinito “una piattaforma video dove potrai crescere velocemente e dove non sarai mai censurato per contenuti politici o scientifici”.
Anche Rumble ha visto i suoi iscritti impennare dopo i fatti dello scorso week end. Ancora una volta, l’assenza di censure ha fatto da richiamo. Tuttavia, come riporta il sito Fortune, secondo Mark Shmulik della Bernstein Bank il recente aumento degli utenti di social come Rumble o MeWe potrebbe essere solo una reazione temporanea. Social come Facebook o Twitter, essendo cresciuti più lentamente, sono invece più stabili e raccolgono un bacino di utenza molto più variegato.
«Non c’è più diritto di discussione»
Dovremmo ricordare, però, che Parler, MeWe e Rumble avevano visto aumentare i loro utenti già durante la seconda metà del 2020. Questo è ciò che sostiene anche Chris Pavlovski, fondatore di Rumble. Lo scorso novembre, inoltre, Pavlovski aveva ribadito al New York Times come Rumble fosse contrario a contenuti espliciti, propaganda terroristica e ingiurie. Ma, aveva aggiunto, non era suo compito selezionare le fake news. «Non voglio fare finta di sapere quale sia la verità o cosa serva per fare questo o quello» continuava Pavlovski, «su altre piattaforme la gente non ha più il diritto di discussione».
Anche gli utenti di un altro social “alternativo” emergente, Sfero, sembrano appellarsi alla libertà di parola. «Benvenuti in dittatura» è il titolo del post di uno degli utenti italiani segnalato tra i Top 100 Influencers della piattaforma. «Nessun privato dovrebbe poter ergersi al di sopra delle libertà sancite in una Costituzione o calpestare le leggi di uno Stato. Invece sta accadendo proprio questo». Tutta colpa della “cricca mondialista”: in un’immagine esplicativa l’utente punta il dito contro le “big companies”, tra cui appaiono anche il movimento Black Lives Matter, gli antifascisti e la bandiera LGBTQ+.
Vale la pena, allora, ricordare il famoso paradosso della tolleranza di Karl Popper: un’illimitata tolleranza non porta ad altro che alla fine della tolleranza. Non per questo bisogna sempre “sopprimere” una filosofia intollerante: ma, secondo il filosofo, ci si deve dichiarare pronti a farlo. Può infatti avvenire che i seguaci di tale filosofia non siano disposti ad incontrarci sul piano razionale e che preferiscano usare “pugni o pistole”. In definitiva,
Noi dovremmo quindi proclamare, in nome della tolleranza, il diritto di non tollerare gli intolleranti.
Rachele Colasanti