Di Clara Bassi
La legge del 19 luglio 2019 n. 69, ha introdotto anche in Italia il reato di revenge porn, con la denominazione di diffusione illecita di immagini o di video sessualmente espliciti.
Il reato di revenge porn, insieme alla violenza domestica e ad altri reati di violenza di genere, ha visto una preoccupante impennata nei periodi di lockdown, probabilmente a causa dell’acutizzarsi dei conflitti nell’ambiente famigliare e alla improvvisa quantità di tempo libero a disposizione.
Alcuni studiosi stanno criticando l’uso stesso delle parole “revenge porn” per identificare il problema, preferendo “condivisione non consensuale di materiale intimo”. Il motivo è presto detto: il materiale condiviso non consensualmente non è materiale pornografico, bensì materiale intimo, privato, che tale doveva rimanere. Inoltre, la parola revenge fa pensare ad una vendetta che in qualche modo la vittima si deve essere meritata, portando dunque pensieri che sfociano facilmente nello slut-shaming e nel victim-blaming.
Un caso su tutti di condivisione non consensuale di materiale intimo sui social network è quello di Tiziana Cantone, i cui video sono stati diffusi e visti da migliaia di persone. I conseguenti attacchi su tutti i suoi social e nella vita reale erano stati numerosi e ferocissimi, tanto da portarla a cambiare nome e trasferirsi in un’altra città, ma questo non fu sufficiente per arginare la marea di odio scatenatasi nei suoi confronti, e nel 2016 la ragazza si suicidò. Questa agghiacciante vicenda dovrebbe darci l’idea della gravità delle sofferenze che patiscono le vittime di questo reato.
Queste condivisioni non consensuali di materiale intimo avvengono sia nei gruppi di soli maschi come le famose chat del calcetto, in cui girano spesso anche contenuti pornografici, ma proliferano con ancor più facilità all’interno di Telegram. Questa app di messaggistica consente la creazione di gruppi privati e soprattutto l’anonimato degli uomini partecipanti. Quello che avviene è uno scambio atroce di materiale intimo diffuso non consensualmente, in cambio di altre foto e video; a volte vengono diffusi nome cognome e anche indirizzo e contatti social della donna vittima, che danno inizio a una persecuzione online e nei casi peggiori anche reale. I commenti in queste chat si assomigliano tutti: si dà della troia, della prostituta, si augura lo stupro, lo stupro di gruppo, la morte.
I legami di solidarietà e competizione che gli uomini formano tra loro, sono spesso collegati alla performance di comportamenti violenti nei confronti delle donne. L’ambiente tossico che si crea in questi gruppi fa nascere un cameratismo violento, intriso di cultura dello stupro, che porta gli utenti del gruppo ad affermarsi personalmente e a validare la propria mascolinità attraverso il vero e proprio stupro online di centinaia di donne. Le foto e i video intimi delle donne vengono scambiate come figurine, i loro corpi oggettificati e privati di ogni umanità; le vittime sono come pezzi di carne al mercato, esposte e vulnerabili ai peggiori attacchi.
In questi gruppi troviamo anche utenti che chiedono informazioni su come stuprare, che chiedono materiale intimo su minorenni, che chiedono come poter stuprare le figlie piccole senza farle piangere. E di conseguenza troviamo il materiale corrispondente.
Troviamo anche foto di compagne e fidanzate fotografate in bagno o mentre si vestivano, foto di ragazze prese dai loro profili Instagram, foto di ragazze sedute durante un viaggio in treno… non ci sono soltanto foto e video sessualmente espliciti, troviamo anche una serie di contenuti che non avevano nulla di esplicito quando sono stati creati, ma che vengono comunque esposti dagli utenti di questi gruppi, che denigrano le donne ritratte o filmate e che augurano loro le cose peggiori.
La presenza di questo comportamento è una prova di come l’aggressione sessuale sia ancora considerata da alcuni conferma di mascolinità e virilità.
Dovremmo interrogarci come società sul perché alcuni uomini sentano il bisogno di affermare la propria mascolinità in modo così violento e abusivo, e di conseguenza a ricercare il dominio e il controllo sulla donna condividendone non consensualmente il materiale.
La volontà di controllo e di denigrazione verso la donna sono chiare, e sono perpetrate ogni giorno in decine e decine di gruppi privati da uomini che sentono la necessità di svilire e spogliare le donne di ogni forma di rispetto per affermarsi. Inoltre, troviamo una quantità esponenziale di slut-shaming e victim-blaming: le donne che hanno osato farsi determinate foto o video vengono ricoperte di insulti, perché la libertà sessuale femminile è ancora vista come sbagliata e riprovevole. Di conseguenza la donna che ha osato dimostrarsi felice di fare sesso e la donna che si sente libera e autodeterminata facendosi foto provocanti vanno punite, messe al loro posto, additate pubblicamente come delle porche, senza dignità alcuna, senza pudore, meritevoli di qualsiasi cattiveria e di ogni insulto e aggressione.
Gli uomini spesso non comprendono la gravità del condividere, per esempio, una foto del seno della propria ex nella chat con gli amici maschi. Spesso l’azione viene derubricata a goliardata, a una cosa di poco conto: la realtà è che è un reato, per cui la donna può rischiare di perdere addirittura il lavoro, come è successo recentemente a una maestra di Torino.
Purtroppo in questi casi agli uomini mancano le basi: il rispetto verso la donna e l’accettazione e comprensione del valore del consenso, e di come violarlo significa mettere in atto una violenza.
Dovremmo più che mai, come società, istruire gli uomini a questi valori, al consenso, al rispetto e a una mascolinità più sana, che abbia basi solide che non si fondino sul cameratismo tossico e sulla violenza di genere; creare una rete salda di supporto alle vittime di condivisione non consensuale di materiale intimo; e soprattutto condannare socialmente questi comportamenti come tossici e violenti, invitando di conseguenza gli uomini ad un esame di coscienza e a rivedere le loro azioni in una luce diversa.